Si possono leggere le poesie di esordio di scrittori poi meritatamente saliti agli onori della gloria letteraria come un Bildungsroman centrato sulla nascita di un estro artistico, oppure dotandosi della minuziosa pazienza dell’archeologo che voglia ricostruire, da una miriade di frammenti sepolti sotto la sabbia del tempo, un manufatto che si ipotizza essere di valore. Se la raccolta Canzone nera pubblicata da Adelphi (pp. 154, € 14,00), per la meticolosa cura di Andrea Ceccherelli e la traduzione italiana di Linda Del Sarto, uscisse adespota, molti faticherebbero a riconoscervi la penna di Wisława Szymborska, la cui opera ha avuto in Italia una fortuna di critica e di pubblico raramente conquistata dai versificatori nostrani. Quanto difficili siano stati gli esordi poetici dell’autrice di Gente sul ponte lo testimonia un aneddoto riportato nella biografia Cianfrusaglie del passato (Adelphi 2015). In un capitolo intitolato «L’esordio nel dopoguerra e la pubblicistica in versi», le autrici, Anna Bikont e Joanna Szczesna, ricostruivano come il direttore del settimanale letterario «Walka», Adam Włodek, nei suoi ricordi avesse definito i primi frutti della produzione di Szymborska «decisamente mediocri, talmente mediocri che non vedevamo la possibilità di pubblicarne nemmeno uno».

Pubblicazione difficoltosa
Non essendo però in grado di mettersi in contatto con l’autrice, che dopo aver consegnato il manoscritto, si era dileguata senza lasciar alcun recapito, la redazione decise di pubblicare almeno una di quelle poesie «lunghe come la quaresima». Non intera, beninteso, solo la metà, successivamente intitolata «Cerco la parola»: «Voglio una sola parola, che sia impregnata di sangue / che come i muri di un carcere / racchiuda in sé tutte / le fosse comuni». L’encomiabile volontà di fare poesia civile sulle rovine di un paese devastato dalla guerra e dallo sterminio si infrangeva su limiti espressivi di cui la stessa autrice era ben consapevole: «Prendo parole comuni, dai dizionari, ne rubo qualcuna, / le misuro, le soppeso, le sondo: / nessuna corrisponde». Nella conclusione del componimento, con lodevole sincerità Szymborska ammetteva che «la nostra lingua è impotente / I suoni d’un tratto – poveri / Cerco, sforzo la mente, / cerco questa parola, / ma non la trovo. / Io non la trovo». Il compito era improbo: si erano misurati nell’intento poeti come Krzysztof Kamil Baczynski, caduto durante l’insurrezione di Varsavia, Tadeusz Gajcy, Czesław Miłosz, e persino Tadeusz Borowski che avrebbe acquisito una fama quasi esclusivamente di prosatore, illustrando nei suoi racconti i meccanismi del funzionamento dell’universo concentrazionario nazista.
E soprattutto Anna Swirczynska che – ci ricorda Andrea Ceccherelli – aveva affrontato il topos della «crociata dei bambini» con un lirismo tragico, difficile da ritrovare in versi di Szymborska come questi: «Là, nella più fervente delle nostre città / sprofondano coi visi nel sangue rappreso / corpi bambini armata di pugni chiusi, congelata nel grido / avanza in una fitta, calda grandine di spari / la crociata dei ragazzini di strada».

Insomma, se l’intenzione era quella di «trasformare il Passato / in epopea», Szymborska riconosceva lealmente che questa «non c’è ancora». Certo, non era epos quello che in futuro sarebbe scaturito dalla sua penna, bensì una lirica riflessiva, al contempo intimista e pregnantemente filosofica. In Canzone nera si distinguono alcune tracce di quello che verrà. C’è già un presentimento di quella poetica dello stupore che esploderà in raccolte come Grande numero, avvolto però in panni ingenuamente didascalici: «È dallo stupore / che sorge il bisogno di parole / e perciò ogni poesia / si chiama Stupore». Della natura filosofica dello stupore infatti Szymborska saprà dare cartesianamente conto svariati anni più tardi in un componimento proprio così intitolato: «Perché mai a tal punto singolare? / Questa e non quella? / E qui che ci sto a fare? / Di martedì? In una casa e non nel nido? / Pelle e non squame? Non foglia, ma viso?».

E in Vagabondaggi, anche se messe in bocca a un personaggio lirico, le parole «il mio dire / sarà sempre come il pathos. Troppo poco» all’orecchio del lettore odierno non suonano con quella coloritura ironica che giganteggia nella raccolta Sale del 1962. Danno un presentimento della produzione matura alcune pennellate sinestetiche («Il colore del giorno è di cielo e di foglie, perciò non c’è nella scatola delle matite, / Prima che il prato muova verso l’ombra / devo cambiare gli occhi in parole») o qualche similitudine melico-entomologica («Altra è la saggezza dei pigri poeti al sole / da quella della mosca che scala lo stelo, / che ignora il suo nome in pedante latino / e l’insolenza delle ali di raggio») che qui però sembrano compromesse da incisi tanto gnomici, quanto ermetici: «Voi siete più deboli dei vostri versi. / Tu scorderai te stessa, prendendo il volo».

Può essere interessante osservare gli interventi con cui la giovane poetessa, animata da un robusto afflato positivista, decostruisce la mistica simbolista del sublime. La poesia «La vetta» si apre in una tonalità post-romantica («Nuvola e roccia / Presentimento e tatto») irrimediabilmente compromessa dal realismo (critico, non ancora socialista) della chiusa: «Molto più giù è mercoledì, / abicì e pane».

Nello specchio degli animali
Altrove spiccano alcune epifanie zoologiche, per esempio la liberazione di un uccellino dalla prigionia in un interno domestico: il suo volo viene seguito dagli «occhi dei libri e gli occhi delle ore». Ma un giorno – lo sappiamo – se lo divorerà «Il gatto in un appartamento vuoto» di La fine e l’inizio. Se c’è qualcosa della raccolta che davvero fa presagire l’autrice di Vista con granello di sabbia è la Poesia d’amore scherzosa. Lungi dall’essere un componimento erotico, è piuttosto una riflessione filosofica sul quel «paradiso perduto della probabilità» che nella (di molto) successiva Ogni caso verrà riassunto dalla formula «Poteva accadere. / Doveva accadere. / È accaduto prima. Dopo / Più vicino. Più lontano. È accaduto non a te». Qui ne troviamo una versione prodromica: «Io non esisto per me stessa. / Sono funzione dell’elemento / Potrei essere un segno nell’aria, / Potrei essere un cerchio sull’acqua».

Quale sia il valore di una raccolta come Canzone nera lo si intuisce dalla parole della stessa Szymborska: «sono convinta che se quel mio primo tentativo si fosse concluso con un insuccesso, non avrei mai più osato mostrare a nessuno le mie poesie». Motivo, questo, per essere grati al redattore Witold Zechenter del cracoviano «Dziennik polski», che volle pubblicare «Cerco la parola» sul numero del 14 marzo 1945.