Una Biennale che privilegia l’agorà politica non può che assegnare premi altrettanto politici. Nonostante le critiche piovute sul curatore Okwui Enwezor, che i detrattori hanno accusato di usare Marx e facili formule d’impatto come fossero un involucro per imballare l’arte ad uso e consumo dei visitatori più accorti, la mostra All World’s Futures lascia molti fili elettrici scoperti. È come un tappeto dai bordi frastagliati, sul quale è meglio camminare facendo attenzione a dove si mettono i piedi.

In linea col pensiero che informa tutta l’esposizione principale, la giuria internazionale di questa 56/ma edizione – composta da Naomi Beckwith (Usa), Sabine Breitwieser (Austria), Mario Codognato (Italia), Ranjit Hoskote (India), Yongwoo Lee (Corea del Sud) – ha scelto l’Armenia come presenza nazionale da far salire sul podio, mentre ricorre il centenario del genocidio del suo popolo. Stringe il Leone d’oro fra le mani la curatrice Adelina Cüberyan Fürstenberg e lo alza al cielo: la sua mostra Armenity, allestita dentro gli spazi densi di stratificazioni del monastero dei Mekhitaristi sull’isola di san Lazzaro, proprio lì dove un tempo c’era il lebbrosario, ha conquistato i giudici per il palinsesto suggestivo. È una costellazione di opere contemporanee di sedici artisti che finisce per ricomporre il mosaico della diaspora. Ognuno degli ospiti, infatti, arriva da paesi del mondo diversi – dall’Argentina al Brasile al Libano passando per l’Italia e l’Austria. Tutti hanno ascoltato, bambini, la stessa storia, cartografata nei ricordi in maniera differente, a seconda di come era andata a finire: la caccia, la morte, il dolore, la fuga, la sopravvivenza, la nostalgia, l’eterno ritorno alle proprie radici, il desiderio di far rivivere un «paradiso perduto».

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Rosana Palazyan nella sua delicata videoinstallazione A Story I never Forgot racconta il viaggio verso Rio de Janeiro delle sue famiglie di origine, per entrambe le parti armene. «Ho sentito il bisogno di connettere frammenti di memoria, dovevo rielaborare ciò che tante volte mi era stato detto». È un fazzoletto ricamato da sua nonna (rifugiata a Salonicco) la «tela» che accoglie le peripezie del viaggio, l’approdo in luoghi sconosciuti e lontani, la nuova vita, il matrimonio, l’accudimento dei figli e nipoti, fino a quando quel magico scampolo di stoffa sbarca in Biennale. Giunge dopo aver affrontato le onde dell’oceano, in forma di fragile mini-nave, identica a quelle di carta che manipolavamo da piccoli. Il video è anche una dedica struggente a una figura amata che intuiamo – attraverso una narrazione evocativa – non esserci più.

Un altro lavoro di Palazyan lo troviamo nel chiostro del monastero: Why Weeds? è l’erbario speciale che l’artista semina (mimetizzandolo) nelle aiuole ben conservate e ordinate. Piante infestanti, le cui radici sono state sostituite dai capelli di Rosana, mentre alcune frasi estrapolate da trattati di agronomia sottolineano quella presenza disturbante e «straniera».
Fra le opere più emozionanti, in una teca al primo piano, in mezzo alla quadreria austera dei monaci, Yervant Gianikian e Angela Ricci Lucchi srotolano la loro pergamena di fiabe, registrando in disegni che somigliano a miniature piene di sottotesti, leggende della tradizione armena così come venivano riportate da uno storyteller d’eccezione, il padre di Yervant, Rafael. È un immaginario senza gerarchie, popolato di personaggi magici (animali parlanti e demoni di boschi e montagne), che riconosce la potenza della natura e affonda nella terra lavorata dai contadini, riaffiorando poi nella tenacia delle metz mayrik, le nonne che ingannavano le notti invernali intessendo lunghi racconti orali. Anche Rafael lo fa, la sua è un’offerta rituale al figlio ed è un dono che Yervant e Angela raccolgono con infinita tenerezza e perizia.

In mostra, c’è anche il prodromo di questo lavoro: il documentario Ritorno a Khodorciur (1986) dove il padre, in un italiano pieno di incertezze, straniamenti, voce che barcolla affronta l’indicibile della sua storia: l’essere stato uno dei pochissimi sopravvissuti alla marcia della morte. È anche un vagabondaggio libero dentro la lingua, chiamata qui a «nominare» la fine di un popolo. È poi una testimonianza traslata attraverso il passaggio dagli occhi alla parola che cerca, interpreta, farfuglia quando l’angoscia divampa. E a ottant’anni quest’uomo, per resistere alle ondate di ricordi e per infrangere l’odio, si è messo ad attraversare a piedi la Turchia, ripercorrendo a ritroso le tappe della marcia forzata da cui la maggior parte non ha fatto ritorno.

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Hera Buyuktasciyan_Letters from Lost paradise-1
Hrair Sarkissian 2
Mekhitar Garabedian_Untitled (Gurgen Mahari, The World is alive, Venice 2-1
Melik Ohanian Streetlights of Memory 1