Non si può far altro che dire che sull’immigrazione dobbiamo cambiare tutto. E che quel che si è visto in questi mesi e in questi giorni lungo i tratti più o meno europei di rotta balcanica è qualcosa che domanda un’assunzione di responsabilità collettiva.

Affinché venga ribaltato l’ordine delle priorità.
Può perfino paradossalmente apparire come una formula autoconsolatoria, una sorta di macabro «mal comune mezzo gaudio», tuttavia è corretto affermare che davvero pochi possono dire di avere la coscienza pulita quando si deve affrontare il tema delle scelte che riguardano il «governo dei flussi».

Il piccolo e arcigno cordone di polizia che ha fermato me, Pietro Bartolo, Brando Benifei, Alessandra Moretti, affinché non raggiungessimo il confine tra la Croazia e la Bosnia, laddove solitamente non passano le delegazioni delle istituzioni ma si avverte il calpestio dei piedi scalzi dei profughi, è il racconto della debolezza delle politiche di questi anni.

Il governo croato (in questi giorni impegnato in un’assurda azione di disinformazione operata nei nostri confronti e delle nostre volontà) pratica in modo esplicito la politica dei respingimenti. Nella foresta di Bojna si realizzano aggressioni e interventi che molte voci libere dell’informazione e della galassia dei militanti dei diritti han ben documentato e la polizia sostiene, nei fatti, di non c’entrare nulla.

Non so dove sia la verità, so solo che a quattro europarlamentari non è stata nemmeno data la possibilità di vedere, alla luce del giorno, i luoghi dove il confine può essere superato e che tanti ragazzi con cui siamo poi entrati in contatto hanno raccontato di episodi semplici e ripetuti («ci rubano tutto, perfino le scarpe, ci picchiano e ci ributtano indietro»).

Ma non c’è solo la Croazia e sbaglieremmo a immaginare che il tema sia ascrivibile a singoli comportamenti di alcuni o perfino, come ogni tanto si legge, alla tradizione «dura» di un popolo (composto, è bene scriverlo mille volte, da tantissima gente perbene).

Del resto, dal punto vista delle politiche nazionali, altri fanno pure peggio (basta spostarsi verso l’Ungheria) e molti, poi, rimangono colpevolmente immobili di fronte ad un bisogno nettissimo di compiere scelte diverse.
Le file del campo di Lipa, composte da giovani uomini provenienti dal Pakistan, dall’Afganistan, dal Kurdistan che attendono sotto la neve un po’ di cibo dal sistema degli aiuti (realizzato senza una vera strategia nazionale bosniaca), quelle file che tanto sinistramente riportano le lancette in un passato lontano, non nascono nei Balcani.
O meglio non solo dalle parti di Bihac e tra le terre imbiancate dall’inverno.

Esse sono il frutto di una poderosa concatenazione di eventi che propone il tema del desiderio e del bisogno di «migrare» in modo ineluttabile.
Un contesto che segna questa fase storica e continuerà a farlo nei prossimi anni, pure a prescindere dalle normative nazionali, dalle facce dure di una parte dei politici o dall’ostilità di pezzi di società.

Questa dimensione, data dagli squilibri sul piano dello sviluppo, dalle tensioni geopolitiche, dagli effetti della crisi climatica e dal desiderio irriducibile di molti di cercare pezzi di futuro «altrove» non è accompagnata da scelte adeguate da parte degli Stati (pure dagli Stati membri della Ue, ovviamente) e della comunità internazionale.

Attenzione: guai a semplificare e a ridurre l’enorme quantità di problematiche e conflitti che l’intera vicenda migratoria porta con sé.
Sinceramente non mi ha mai convinto un pensiero genericamente confidente verso la «bellezza» della società segnata dal pluralismo culturale ed etnico.

Non è (solo) quella «bellezza» che ci permetterà oggi di trasformare le politiche.
Serve infatti un lavoro enorme, in particolare in alcune aree geografiche più esposte di altre, fatto dalla cultura dello «stare nel mezzo» e dunque, al contrario della logica della deresponsabilizzazione continua di tutti, costituito da una necessità di gestire, scegliere, assumersi l’onore del sostegno alle comunità locali e dell’accoglienza e dei processi (spesso difficili) di integrazione.

Lo penso a maggior ragione osservando la Bosnia Erzegovina, laddove comunità anche piccole, persone, che si sono in anni recenti dimostrate ospitali e accoglienti, oggi, raccontano della fatica causata, innanzitutto, dalla sensazione di solitudine che è destinato spesso a provare chi in qualche modo si occupa di immigrazione.

Per questo il punto è proprio quello di decidere un’«agenda» diversa fatta da azioni immediate, come quelle riguardanti l’apertura dei corridoi umanitari (in Bosnia ma pure sul confine greco o in Libia) ma soprattutto da interventi strutturali condizionati dall’idea che l’Europa non possa continuare a viversi come una «fortezza assediata», nella quale di volta in volta sperimentare, in ragione delle scelte di singoli Stati, misure più o meno nette di chiusura e contenimento.
Ecco perché la Bosnia è «questione europea». Come lo è la Libia o come lo è stata Lampedusa.

E ciò significa che serve buttare via il regolamento di Dublino che ha formalmente sancito, come ci ha ricordato in questi giorni il parlamentare europeo Massimiliano Smeriglio (presente sul versante italiano della rotta balcanica) la logica dell’assenza di una responsabilità comune.
E per lo stesso motivo, se non vogliamo commuoverci di fronte ai corpi nudi nella neve, per poi dimenticarli nel vuote delle politiche, serve un nuovo Piano europeo ben diverso da quello recentemente pensato dalla Commissione.

Molti, in questi giorni, si stanno accorgendo della Bosnia, anche in Italia.
Occupiamocene, sempre di più, al fianco di chi da anni (dalla Caritas alle Acli a Croce Rossa) è lì sul campo.
Ma occupiamocene anche decidendo di concludere il finanziamento alla missione in Libia, di mettere all’indice la vergognosa direzione di Frontex, di realizzare, ad esempio, un grande progetto di «Protezione civile e umanitaria» di livello veramente europeo, capace di buttarsi, per l’appunto, nel mezzo.
* (Parlamentare europeo Socialisti e Democratici, parte della delegazione in Croazia e Bosnia degli europarlamentari)