Israele da ieri è di nuovo sul banco degli imputati all’Aja, dove la Corte internazionale di giustizia (Cig) in una serie di udienze pubbliche fino al 26 febbraio valuterà le implicazioni sul piano legale delle politiche israeliane nei territori palestinesi occupati. I giudici sono stati chiamati dall’assemblea generale delle Nazioni unite, con apposita risoluzione del 30 dicembre 2022, ad esprimere un parere «non vincolante» sulle «conseguenze giuridiche della violazione del diritto dei Palestinesi all’autodeterminazione, nonché dell’occupazione, della colonizzazione e dell’annessione prolungata dei territori palestinesi dal 1967».

Se la denuncia del Sudafrica presso la stessa Corte riguardava possibili politiche genocidiarie messe in atto a Gaza dopo il 7 ottobre, qui si parla dei crimini e delle sfide al diritto internazionale che hanno caratterizzato i 57 anni precedenti.

AL PALAZZO DELLA PACE, sede del tribunale Onu, nei prossimi giorni sfileranno i rappresentanti di ben 52 paesi, Stati uniti, Cina e Russia in testa, più tre organizzazioni internazionali: Un record assoluto. Si tratta di valutare del resto l’impatto sul piano legale e morale che l’occupazione israeliana comporta anche per gli altri paesi, non solo per Israele. Si è parlato anche di “guerra dei sei giorni giuridica”, ma Israele ha scelto fin da subito di non combatterla, o quantomeno di derubricarla a interferenza molesta della comunità internazionale sui suoi affari interni. Netanyahu aveva già definito la risoluzione dell’Onu un’iniziativa «spregevole». Ieri l’ufficio del premier israeliano ha ribadito che si tratta di un processo «progettato per danneggiare il diritto di Israele a difendersi dalle minacce esistenziali».

Il concetto di “difesa” è stato messo a dura prova ieri da quanto illustrato durante la prima udienza dalla delegazione politico-legale dell’Autorità nazionale palestinese. Riyad al-Maliki, ministro degli Esteri dell’Anp, ha illustrato mappe alla mano uno stato dell’arte che lascia ai palestinesi solo la scelta tra «sfollamento, sottomissione o morte». Ha ricordato «gli oltre 3,5 milioni di palestinesi in Cisgiordania, compresa Gerusalemme Est, soggetti alla colonizzazione del loro territorio e alla violenza razzista che la rende possibile». E ha ricordato i 7 milioni di profughi a cui viene negato il diritto al ritorno … «Un palestinese – ha detto – può trascorrere l’intera vita come rifugiato (…), sotto costante minaccia, vedere i propri cari gettati nelle carceri israeliane a tempo indeterminato, e la propria terra rubata, colonizzata, annessa».

IL RAPPRESENTANTE LEGALE dell’Anp, Paul Reichler, ha indicato «l’acquisizione permanente della massima quantità di territorio palestinese con il minimo numero di palestinesi al suo interno» come l’obiettivo principale di Israele, ricordando che «gruppi armati di coloni, sostenuti dalle forze di occupazione israeliane e incoraggiati da esponenti del governo, hanno espulso con la violenza migliaia di pacifici civili palestinesi dai loro villaggi e dalle loro terre ancestrali». Reichler ha anche elencato le varie sfide lanciate nel tempo da Israele al diritto internazionale, come «la creazione di centinaia di insediamenti con oltre 700 mila coloni israeliani» e i propositi ufficiali di creare «un unico Stato ebraico che si estenda dal fiume Giordano al Mar Mediterraneo».

AI GIUDICI STAVOLTA non viene chiesto chissà che dai rappresentanti dell’Anp, si tratta solo di «confermare» quanto più volte stabilito da diversi organi e da diverse risoluzioni dell’Onu, e cioè la natura «illegale» dell’occupazione. Non manca da parte palestinese l’aspettativa che un pronunciamento della Corte possa aprire la strada alla fine dell’occupazione.

I precedenti in verità non lasciano ben sperare. Nel 2004 la Cig era stata chiamata ad esprimersi sulla legalità del muro lungo oltre 200 km costruito da Israele in Cisgiordania. Al termine i giudici ne ordinarono lo smantellamento. Ma il muro e l’occupazione stanno sempre lì.