Negli ultimi due decenni, una parte della critica letteraria sembra essersi impegnata per portare a compimento una profezia di Goethe, che fin dal 1827 dichiarava a Eckermann: «le letterature nazionali non significano più molto, si avvicina un’epoca votata allo studio della letteratura universale», la Weltliteratur. Il tentativo di procedere in questa direzione è stato avanzato soprattutto nel settore delle letterature comparate, dove libri come La repubblica mondiale delle lettere di Pascale Casanova (la cui traduzione è in uscita da Nottetempo) ci hanno proposto di superare le indagini di carattere eurocentrico, limitate al canone ristretto della tradizione occidentale. Il nostro obiettivo, secondo Casanova, dovrebbe coincidere con la fondazione di una critica «internazionale», determinata a rivelare l’invisibile rete di rapporti egemonici che legano una letteratura all’altra, in uno spazio globale ancora più complesso e inclusivo della Weltliteratur di Goethe.

Progetti tanto ambiziosi sono però arrivati a generare una smodata estensione dei campi e dei materiali di ricerca, che si sono dilatati fino a travalicare le umane capacità dei critici. Leggere tutto, in una simile vastità di orizzonti, è diventato impossibile. Anche perciò, a suo tempo Franco Moretti decise di servirsi degli strumenti computazionali offerti dalle digital humanities del laboratorio di Stanford, che con i loro database di testi digitalizzati permettono di effettuare ricerche informatiche su un’enorme quantità di romanzi; e senza prendersi il disturbo di leggerli! È nato così il «distant reading», una tecnica di analisi che non si concentra sulle singole opere, bensì su unità «molto più piccole o più grandi» di un testo – un tema, una tecnica o un genere – per poi pedinare la loro evoluzione all’interno del sistema planetario attraverso i supporti digitali.

«La distanza», ha ripetuto Moretti nelle sue Congetture sulla letteratura mondiale, «è una condizione conoscitiva». E tuttavia bisognerà pur ammettere che il distant reading, nonostante gli sbalorditivi risultati raggiunti dalle pubblicazioni dello Stanford Literary Lab, privilegia una dimensione astratta, che rischia di alienare dalla critica buona parte del pubblico. Accanto ai ricercatori specializzati e ai critici di mestiere, continua infatti a esistere il lettore comune, abituato – secondo Virginia Woolf – a valutare e comparare la «forma» dei romanzi prima di tutto in base alle proprie impressioni. È a quest’ultima tipologia di che si rivolge uno dei recensori del New Yorker, James Wood, quando scrive gli articoli oggi raccolti in Come funziona la critica (minimum fax, pp. 364, € 16,00).

Se la comparatistica ci chiede di guardare la letteratura da lontano, Wood si proclama invece erede di una critica militante di «tradizione giornalistica», che vuole rieducare i lettori a osservare il testo più da vicino, per tornare a comprendere come lavorano gli scrittori nel loro sforzo di rappresentazione della vita.

Il segreto della lettura ravvicinata (o close reading) sta tutto nell’analisi dei dettagli della narrazione, che ci orientano, secondo Wood, come una sorta di «stella guida». Ce ne possiamo servire per individuare i princìpi che disciplinano la scrittura di un romanziere e la costruzione del suo universo narrativo, oppure li possiamo impiegare come strumento di valutazione dei diversi risultati estetici. Wood apprezza soprattutto i dettagli «dinamici» e all’apparenza casuali escogitati da Čechov, Tolstoj o Virginia Woolf per creare personaggi «liberi» e dalla vitalità pressoché incontrollabile, mentre si affretta a stroncare romanzieri «vacui» – come Paul Auster – che non riescono a incantarci con le loro trovate postmoderne proprio perché non sanno sfruttare la forza illusionistica del dettaglio.

Ma come possiamo riconoscere un uso efficace dei particolari narrativi? Se è vero che il dettaglio riunisce in sé tanto «l’artificio» della scrittura quanto la naturalezza della vita, siamo costretti a scontrarci con i paradossi che regolano i rapporti fra verità, finzione e realismo. Esistono, secondo Wood, stili «veri», contrassegnati dall’esubero di elementi straordinari, e stili soltanto «realistici», che si fondano su particolari più piatti, convenzionali e destinati a offrire una riproduzione falsata del mondo. Sarebbe questo, sostiene Wood con una certa prosopopea, il limite del «realismo isterico» dei romanzi di Don DeLillo e Zadie Smith, dove i dettagli vengono sacrificati «sull’altare della trama» e i personaggi, privi di spessore, si ritrovano soffocati in una rete di casi irreali in base a logiche «disumane». Poco importa poi se Balzac ci ha suggerito che proprio «il caso», con le sue sorprendenti dinamiche, può rivelarsi «il più grande romanziere del mondo». Compito del critico resta l’individuazione di scrittori – come Primo Levi o Sebald – che attraverso l’originale scelta dei dettagli sono riusciti a rimettere in discussione o addirittura a reinventare la nostra percezione del bene e del male.

La critica giornalistica di Wood non fa che riutilizzare alcune strategie a suo tempo avanzate dal formalismo russo o dalla stilistica. Le sue osservazioni sull’originalità dei particolari ricalcano infatti la teoria dello straniamento di Šklovskij, secondo la quale il procedimento artistico sottrae gli oggetti all’automatismo della percezione per mostrarli sotto una nuova luce. Anche l’attenzione riservata al dettaglio, più in generale, sembra richiamare il metodo di Leo Spitzer, che si proponeva di rintracciare «lo spirito e la natura» di uno scrittore o della sua epoca «nei particolari linguistici del più piccolo organismo artistico». Con la differenza abissale che i dettagli, per Wood, non entrano a far parte di un vero e proprio sistema interpretativo: rappresentano, come diceva Gadda, una sorta di «residuo fecale» della realtà, impermeabile e fine a sé stesso, che non si lascia catturare dalla teoria e riesce tutt’al più a indicarci un «surplus» di vita presente nel testo. Anche se ci impegnassimo a scrivere la storia delle strategie più o meno vitali con cui i diversi romanzieri del pianeta hanno impiegato i particolari, dove ci condurrebbe un’indagine basata su criteri di gusto tanto soggettivi?

Mentre la comparatistica accademica pecca forse di eccessiva astrazione, il close reading della critica giornalistica di Wood eccede in concretezza. Nel tentativo di accattivarsi l’attenzione dei lettori e di facilitare il loro avvicinamento ai testi, Wood non esita peraltro a inserire nei suoi articoli lunghi interventi di carattere autobiografico, che comprendono ricordi e esperienze personali affini ai temi del libro recensito: bandita dal più rigoroso ambito scientifico, una  simile estensione del discorso alla sfera privata non è necessaria nemmeno in sede giornalistica. Come ci hanno insegnato Bachtin e Auerbach, la rappresentazione della vita quotidiana è già presente a sufficienza nei romanzi, anche senza che il critico si scomodi ad aggiungervi la propria.