Nel Re Granchio ci sono due films che crescono uno dentro l’altro. Anzi, tre. Il primo nasce ai giorni nostri. Siamo alla tavola di Ercolino, un romano «de Roma» che da alcuni anni ha deciso di vivere a Vajano, in Tuscia, dove ha costruito un rifugio che si riempie dei cacciatori della zona. I cacciatori parlano, bevono, raccontano storie. Due di queste avevano dato luogo ai primi due film documentari della coppia Alessio Rigo de Righi e Matteo Zoppis. La terza, la leggenda del re granchio, era, come dicono loro, «più vasta ma anche meno dettagliata». C’era tutto da riscrivere, cercare, inventare. L’essenziale lo riassume Ercolino in una frase: «Di Luciano si diceva che era un aristocratico, ma anche un bastardo e un ubriacone. Si diceva poi che avesse ucciso, e che fosse fuggito in Patagonia». È su questa micro-sinossi che i due autori costruiscono due finzioni. La prima a Vajano. La seconda nella Terra del fuoco.
Le storie della tradizione orale hanno la stessa natura della cultura. Non sono una cosa finita, che si trasmette tale e quale. Sono al contrario delle cose vive, che mutano, evolvono, cambiano cancellando alcuni elementi e aggiungendone altri. Per chi pensa che la cultura sia l’identità, ovvero il segno uguale messo tra il passato e il presente, il Re Granchio è una cura infallibile. Perché dentro la storia di questo strano re ce ne sono mille altre, simili, aggiunte, sovrapposte. Ed il film stesso non si limita a catalogarle o a sovrapporle ma piuttosto a farle incontrare scegliendole e rimettendole in scena con i mezzi del linguaggio cinematografico.

IL PRIMO MODO di questa mutazione è il fatto di prendere gli abitanti di Vajano e utilizzarli, con i loro visi e il loro parlato inimitabile. Qualche semplice costume di scena, ed ecco sorgere un paese centro-italico della fine dell’ottocento. Dentro questa cornice arcadica i cineasti hanno fatto calare un pezzo di Roma contemporanea. Romani sono infatti i nobili che popolano il castello. Romano è l’attore che recita la parte di Luciano, Gabriele Silli, artista contemporaneo che ha fatto del proprio ruolo una sorta di opera d’arte plastica, facendo sorgere sia il personaggio di Luciano l’ubriacone, sia quello di Luciano l’esploratore.
Anche i luoghi contribuiscono alla creazione di questo racconto, o alla sua costante reinvenzione. Non meno dei corpi degli attori, il villaggio e il circondario di Vajano, contribuiscono a farci entrare nelle storie. Ci sono le case o i tuguri dei pastori, filmati come faceva Ford in Sentieri selvaggi, con una luce accecante fuori, che pure non riesce mai, dalle porte o dalle piccole finestre, a illuminare gli interni. C’è d’altro lato la splendida campagna verdeggiante. La cupa osteria del paese. L’austera ma ricca casa paterna. E infine la corte del castello. Ognuno di questi luoghi aggiunge o toglie degli elementi alla storia di Luciano che evolve sotto i nostri occhio: aristocratico, sognatore, anarchico, ubriacone.

IL CUORE DEL FILM è la storia d’amore con la figlia d’un pastore. Emma che seduce Luciano, vince la sua diffidenza verso la vita, ma poi, una volta che ne ha addomesticato gli impulsi distruttivi, lo rigetta, per andare a frequentare la società del castello. Luciano, che dopo essere stato escluso da quella società nobiliare non è riuscito a integrarsi tra quella proletaria, esce di testa e mette fuoco al castello. La prima parte del film finisce qui. Ma è solo una parte, perché il film, per capire il personaggio di Luciano, deve attraversare l’oceano e portarlo nella Terra del fuoco. Nella traversata il film cambia di genere, diventando una sorta di western. A Vajano il film girava in tondo, errava nel villaggio. In Patagonia invece avanza, caparbiamente, verso una meta di cui però il senso resta altrettanto oscuro che il misterioso granchio a cui il titolo allude. Ma se la linea cambia, si tratta comunque di un’erranza. Soprattutto, si tratta di raccogliere per strada altre storie. Questa volta storie di migranti, vere o presunte, delle quali il personaggio di Luciano si fa carico, come un vaso, portandole fino alla fine del mondo.

QUELLA di Re Granchio è senza dubbio una delle più belle proiezioni di Cannes finora. Il lavoro di Rigo de Righi e Zoppis fa pensare a quello di altri cantastorie che la Quinzaine ha accolto in passato, uno fra tutti Albert Serra. Ma già da questo primo film di finzione, i due cineasti fanno apparire una voce unica e personale.
Quello che si vede sullo schermo è solo una parte della sorpresa. La musica ne è un’altra, altrettanto impressionante. In Re Granchio c’è da un lato una partizione musicale, firmata da Vittorio Giampietro, il cui lavoro è un contrappunto costante a quello della fotografia. Accanto a questa partizione strumentale appaiono delle canzoni popolari che completano il dialogo che il film intrattiene con la cultura orale. Gli autori non si sono limitati a registrare l’esistente, ma hanno messo il loro cinema in gioco, facendo del film una tappa del lavoro infinito della creazione della cultura popolare. Forse è questo il significato di questo strano animale/simbolo: il granchio, che sembra un fossile, ed invece è una cosa viva.