Budapest e Bruxelles ai ferri corti. Per entrambe le parti la goccia che ha fatto traboccare il vaso è la legge ungherese anti-Lgbtq: una vergogna, secondo la Commissione europea, una sacrosanta espressione di sovranità nazionale secondo Orbán e i suoi. Il confronto è teso: l’invito a ritirare la norma e a riconsiderare il passo compiuto ha ottenuto come risultato l’annuncio di un referendum con quesiti tutti volti a presentare la comunità Lgbtq in modo negativo. Un confronto teso, si diceva, che ha visto la parte magiara evocare addirittura la possibilità di mettere in discussione la sua permanenza nell’Unione europea.

Si parla quindi di Unghexit, si ventila la possibilità di un abbandono risentito da parte di Budapest, ma senza troppa fretta. Magari nel 2030 o giù di lì, se sarà il caso. Giusto il tempo di vedere chiaro nelle prospettive dei rapporti economici con l’Ue. Attualmente l’Ungheria è un paese che dall’Unione riceve più di quello che dà, e beneficia di ingenti finanziamenti a fondo perduto cui non intende rinunciare e che hanno finora concorso alla quasi totalità degli investimenti avvenuti nel paese in diversi ambiti. Ma un bel giorno l’Ungheria potrebbe diventare un contributore netto, uno di quegli stati membri che versano al bilancio comunitario più di quello che ricevono.

A QUESTO PUNTO vale la pena di precisare che l’ipotesi è stata avanzata dal ministro delle Finanze Mihály Varga che, a dire il vero, passa per essere una delle figure più moderate dell’esecutivo e, in generale, della “squadra” del premier. In un’intervista rilasciata all’emittente televisiva ungherese Atv, Varga ha affermato che il problema della permanenza del paese nell’Ue «potrebbe assumere una nuova prospettiva nel momento in cui prevediamo di diventare contributori netti». Il riferimento cronologico è al già citato 2030. Secondo il ministro questo scenario potrebbe concretizzarsi «se gli attacchi di Bruxelles proseguiranno su scelte di valori».

IN ALTRE PAROLE, l’Ungheria si riserva la possibilità di riconsiderare la sua adesione all’Ue sia per questioni economiche, sia per sottrarsi a un sistema che il governo di Budapest considera inaccettabile in quanto basato, a suo parere, sull’imposizione di valori estranei al paese da parte di Bruxelles e perpetrato con attacchi su scelte che l’esecutivo ungherese ritiene di competenza esclusivamente interna.

La tensione fra le parti cresce; a essa contribuisce una nuova iniziativa del governo: si tratta di un testo firmato dal primo ministro e pubblicato sulla Gazzetta ufficiale. In esso si respingono nettamente le accuse della Commissione europea riguardanti il clima antidemocratico imposto al paese dal sistema che vede a capo Viktor Orbán, e si ritiene l’esecutivo comunitario responsabile di dar luogo a “pressioni” e a meccanismi del tipo “due pesi due misure” in materia di Stato di diritto.

IL DOCUMENTO firmato dal premier è stato diffuso su Twitter in inglese, francese e tedesco dalla ministra della Giustizia Judit Varga che già più volte, di recente, ha avuto modo di esprimersi sullo scontro fra Budapest e l’Ue riguardo alla legge anti-Lgbtq.

Per la guardasigilli «l’Ungheria ha subito un attacco senza precedenti solo perché la protezione dei bambini e delle famiglie è la nostra priorità, e a questo proposito non vogliamo che la lobby Lgbtq entri nelle nostre scuole e asili». Evidentemente quella delle varie lobby che minacciano il paese è un’ossessione del governo.

MA TORNANDO alla Unghexit, quanto è da prendere sul serio questa dichiarazione? Al momento sembra soprattutto una provocazione, un’idea assurda, secondo le opposizioni di centro-sinistra che si riferiscono a valori europei di democrazia, apertura e tolleranza. Come già precisato più volte, le medesime attendono Orbán alla resa dei conti del voto previsto per l’aprile dell’anno prossimo, ma faranno bene a prendere in modo dovuto le misure dell’avversario. Con Viktor non si sa mai.