Come può esserci la pace senza giustizia? Gli «esportatori di democrazia» americani, in realtà degli occupanti coloniali dell’Afghanistan, per vent’anni non hanno risposto a questa semplice domanda. Anche perché in Afghanistan non c’è mai stata la pace. Il paese nel 2001 non è stato liberato dai talebani, ma sottomesso. Sono stati imposti dei presidenti eletti con frodi ed è stato permesso qualsiasi genere di corruzione e di sopraffazione sul popolo da parte di fantocci politici di ogni livello. Una maledizione che ha colpito un po’ tutti, soprattutto le donne dell’Afghanistan.

Durante l’occupazione americana le donne hanno riacquistato alcuni diritti, ma non poteva essere diversamente dopo essere state sottomesse al «grado zero» talebano, ma la diffusa ingiustizia e la sopraffazione nei loro confronti è rimasta identica a prima e non è stato fatto quasi nulla da parte dell’occupante per trasformare una società patriarcale, tribale, arcaica, ignorante e coercitiva in un modello sociale e culturale almeno del presente se non del futuro.

Nel secondo decennio del secolo scorso, il re Aman Ullah Khan, un riformatore poliglotta, che sbaragliò il «great game» coloniale vincendo nel 1919 contro i britannici, insieme alla regina Soraya, pose al primo posto, tanto era importante, la questione dei diritti delle donne. Nel 1921 fu inaugurata la prima scuola femminile del Paese e fu abolita l’obbligatorietà del velo per le donne che potevano apparire in pubblico a capo scoperto. Davanti a tanto scandaloso riformismo si ribellarono diverse tribù che costrinsero il re ad abdicare e a prendere la strada dell’esilio in Italia.

La rozza ribellione tribale aveva vinto allora e, dopo 100 anni dall’esilio del re riformista, ha stravinto con gli americani il cui vero scopo è stato quello di vendicarsi sugli afgani, un popolo senza alcuna colpa per l’attentato dell’11 settembre 2001. Per vent’anni hanno infierito facendo decine di migliaia di morti tra la popolazione invece di preoccuparsi di punire i veri responsabili dell’11 settembre: i loro alleati sauditi e pakistani. Infine hanno tradito il popolo afghano permettendo che ritornassero i barbuti con la frusta, il burqa e le esecuzioni allo stadio, i loro vecchi amici che hanno foraggiato da 1992 al 1996. Gli americani hanno tradito soprattutto le donne che in questi due decenni con grande coraggio, sia nelle famiglie che nella società, avevano riconquistato da sole un po’ di diritti.

Dopo Il leone del Panshir, realizzato nel 1997 con il comandante Ahmad Shah Massoud, ho girato durante il periodo dell’occupazione americana altri due documentari, Il postino di Kabul e Sorella libertà sul tema dei diritti umani soprattutto quelli del donne. Ho girato anche molto materiale rimasto inedito grazie ai dirigenti di un Servizio pubblico televisivo, ovvero la Rai, che nei vent’anni del conflitto, al quale hanno partecipato anche militari italiani, molto colpevolmente non ha prodotto alcun vero documentario per raccontare quel popolo e i suoi problemi. In questi giorni ci sarebbe da invocare la cecità catodica per non vedere le presentatrici e presentatori che su ogni canale, solo ora, si stracciano le vesti e i capelli per le donne afghane, dopo avere ignorato quel popolo per vent’anni: un’altra vergogna nazionale.

Il diritto
Invece ci sarebbe stato in passato tanto da raccontare dell’occupazione americana dove l’ingiustizia ha regnato sovrana. Guardando i vecchi documentari d’epoca, o anche quelli di anni antecedenti nel periodo del turismo con la calata nel paese degli hippies, si rimane stupiti a vedere donne afghane in minigonna e senza veli o burqa girare liberamente per le strade. Da allora la situazione è peggiorata di molto.

Durante delle riprese nel Tribunale penale antiterrorismo di Kabul avevo toccato con mano che era impossibile arrivare a uno Stato di diritto soprattutto per le donne. Lo Stato italiano si era sforzato di ridipingere le aule delle udienze e mandare dei nostri magistrati per riformare i codici. Un impegno vano. La Sharia, la legge islamica era ritenuta dai giudici afghani superiore ai codici napoleonici, al diritto romano e a qualsiasi regola dello stato di diritto.

Nell’udienza per giudicare un rapitore di una tredicenne che era stata drogata, stuprata e portato in giro per l’Afghanistan ho toccato con mano la Sharia. Il giudice dopo un preambolo sull’etica del popolo afgano, «Dignità e onore sono importantissimi in questo paese ha dato 2.500.000 di martiri per difendere l’onore e la dignità invece per me tu imputato sei molto piccolo, quanto una mosca…» aveva proposto, contraddicendosi quanto a etica, all’imputato: «In Afghanistan non si può sposare una di 13 anni anche se la ragazzina dovesse essere d’accordo, ma lei non è d’accordo. Per i tuoi bambini, per tua moglie, ti faccio un grande favore. Cerca di ottenere il consenso dei suoi genitori a sposare la ragazzina che hai rapito: fai come vuoi, pagali, mandagli gli anziani, ma l’importante è che tu ottenga il loro consenso…altrimenti io ti leggo la sentenza che ti condanna a 20 anni di carcere per sequestro di persona e violenza sessuale.» Il giudice così severo, trascurando di sentire cosa pensasse la tredicenne del matrimonio con lo stupratore, chiese al padre della ragazza: «Vuoi dargli il consenso al matrimonio, chiedendogli in cambio una ragazza per tuo figlio?» Il padre della ragazza gli rispose contento, «Ho un figlio di nove anni, ma se lui mi dà una ragazza, un sua parente le do in cambio di mia figlia… e arrivederci e grazie!» Ingiustizia era fatta!

Il Tribunale di Kabul, che era pieno di storie di questo tipo, l’unica giudice donna, una persona preparata e colta, in passato era stata licenziata dai talebani, «Mi avevano mandato a fare la babysitter in un asilo dicendo che le donne sono troppo emotive per fare i giudici». Aveva riavuto l’incarico però con dei problemi: doveva stare zitta durante le udienze, anche se era nel collegio giudicante.

Malalai Joya
Durate le riprese del terzo documentario, Sorella Libertà, passai lungo tempo con Malalai Joya, una donna che coraggiosamente nel 2002 si era opposta ai Signori della guerra nel corso della Loya Jirga, la grande assemblea costituzionale che avrebbe dovuto scrivere la nuova Costituzione. Doveva girare con una scorta numerosa di poliziotti per non essere assassinata dai suoi colleghi della «Loya Jirga», i Signori della guerra dei tempi della guerra civile. Diverse donne che soffrivano per tremende ingiustizie famigliari che la polizia e la magistratura non solo ignorava, ma manipolava a favore dei persecutori, si rivolgevano a lei.

Come la giovane Somia, che raccontando nella sua misera stanza quello che aveva passato, piangeva, «Facevo la sarta di sera e di giorno frequentavo un corso di alfabetizzazione. Uno sconosciuto mi ha fermato per strada, mi ha afferrata arrotolandomi nel burqa». Somia venne rapita e portata a casa di un Signore della guerra. «Mi hanno legato mani e piedi, mi hanno spogliato e fatto un video e delle foto. Mi hanno detto che se avessi urlato, mi avrebbero buttata nel pozzo e non mi avrebbe più trovata nessuno…» racconta la giovane abbassando la testa e singhiozzando. È stata poi violentata dal Signore della guerra e da tutti suoi innumerevoli miliziani. Il Signore della guerra in realtà voleva disonorare la madre della giovane per obbligarla a regalargli dei terreni. «Il comandante che ha rapito mia figlia, Haji Rahim voleva i miei terreni. Ha ucciso anche mio fratello…» dice la madre di Somia. Haji Rahim lo aveva rapito e assassinato obbligandolo a camminare su un campo minato. «Ha ucciso mio fratello, il fratello di mio marito e mio marito… tre famigliari».

La giovane, la madre e i fratellini scapparono a Kabul sperando di non dover subire altre violenze. Invece una sera la polizia corrotta dal Signore della guerra, fece irruzione nell’abitazione della famiglia della giovane. Picchiò la madre, il secondo marito e i fratelli. Rapì la ragazza che per una seconda volta subì violenza da diversi scherani del Signore della guerra. Cosa fece il Tribunale di Kabul? Scagionò il potente Signore della guerra e fece arrestare il secondo marito della madre della ragazza per simulazione di reato.

La casa segreta
Altre immense tragedie le avevamo vissute molte donne afghane che vivevano in un luogo molto segreto, di cui pochi conoscevano l’esistenza. Per arrivarci lasciammo la scorta di polizia in una piazza e rischiando di subire attentati o un rapimento salimmo su un furgone anonimo condotto da un’autista estremamente circospetto e silenzioso.

Dopo diversi giri a vuoto per vedere che non ci seguisse nessuno, arrivammo a una casa a due piani con larghe finestre e un giardino curato, il rifugio segreto delle donne di Kabul, dove venivano ospitate le giovani che erano scappate dai mariti e dalle famiglie dopo aver subito violenze, soprusi e torture. Chi aveva organizzato l’incontro clandestino mi spiegò che avevamo cambiato auto perché non si fidava della polizia: c’era molta corruzione, giravano mazzette nei tribunali, qualcuno avrebbero potuto svelare ai mariti o ai famigliari delle fuggitive il luogo dov’erano nascoste e vendicarsi. «I famigliari di una donna, mi spiegarono, hanno implorato di restituirla a loro dicendo che non le avrebbero più fatto del male, che si erano pentiti e avevano capito di aver sbagliato. Dopo avere riportato a casa la ragazza l’hanno uccisa…».

Appena entro nella casa le giovani donne nascoste mi dicono, «Ci siano coperte il viso perché siano state minacciate e non vogliano essere riconosciute. Non per offenderti».

Una di loro, che ha 35 anni, racconta, «Mio zio materno mi ha perduta al gioco con un uomo che così è diventato mio marito. Ho avuto tre bambini. Mi maltrattava, mi picchiava. Era un tossicodipendente e un alcolista. Mi diceva ‘fai il lavoro che vuoi basta che mi porti i soldi. Quando sono scappata dalla mia famiglia, mia madre mi ha cacciata e mio fratello mi ha picchiata. Non mi credevano.» Una seconda giovane, che ha 25 anni, ha una storia ancora più terribile, «Mio fratello quando aveva 16 anni ha ucciso mio padre e le mie sorellastre per prendersi i soldi e le proprietà. La polizia lo ha arrestato per 4-5 giorni poi lo ha rilasciato perché aveva amici potenti. Mi ha promesso in sposa ad una canaglia. Se non avessi accettato il matrimonio mi ha detto che mi avrebbe ucciso. Sono scappata».

Interviene una terza donna, sui 30 anni, molto combattiva, «Mio zio paterno ha ucciso mio padre, mio marito e suo figlio. Poi ha fatto sposare mia madre a un altro suo figlio. Dopo mia madre voleva che sposassi anch’io il figlio. Non potevo sposare il marito di mia madre. Erano disumani. Mi maltrattavano come uno straccio vecchio. Mi hanno perfino rasato i capelli e percosso con delle catene e mi hanno accoltellata. Ho ancora le cicatrici.» Vedo che una giovanissima, che ha forse 16 anni e gli occhi pieni di paura e ha gli avanbracci pesantemente bendati. Le chiedo cosa lei sia successo. Mi risponde titubante, «Mia madre, che era molto prepotente e crudele, aveva promesso in sposa mia sorella ad un uomo contro la sua volontà. Mia sorella è scappata…» Non vorrebbe dire altro ma le sue compagne la incitano a raccontare.

Ricomincia il suo doloroso racconto tra i singhiozzi e molte esitazioni. «Quando avevo undici anni, per sostituire mia sorella che era scappata, sono stata venduta al fratello di suo marito. Da allora mi hanno maltrattata e torturata per vendicarsi di mia sorella. Mia suocera mi diceva che si sarebbe vendicata di mia sorella facendomi del male. Un giorno mi ha chiesto di cucinare il pane, ma non sapevo farlo… e allora mi ha buttato la benzina addosso e mi ha dato fuoco.»
Queste sono solo storie estreme o in Afghanistan non ci sono storie non estreme che riguardino le donne?

Prima che si diffonda questo virus pernicioso dell’intolleranza e della sopraffazione l’Europa dovrebbe fare qualcosa, soprattutto quello che gli americani non hanno mai fatto.