Di questo giorno di 50 anni fa, quando uscì il primo numero del quotidiano il manifesto, io mi ricordo bene. Allora ero studente-lavoratore (all’Università di Trento andavo solo per gli esami) ed avevo deciso di prendermi una vacanza di un giorno per allungare il ponte del Primo Maggio e andare finalmente a vedere la Toscana che non conoscevo.

Decisi, appena avuto il giornale per le mani, che ne avrei acquistato venti copie e che sarei andato a venderle alla manifestazione sindacale di Firenze. Finalmente una zona rossa, un’emozione per me che venivo da una zona «bianca» per eccellenza, Bra, provincia di Cuneo.

Eppure proprio da noi già da almeno un anno, cioè da poco dopo l’uscita della Rivista, avevamo costituito il circolo del manifesto. Eravamo già un gruppo organizzato, che si chiamava «Avanguardia proletaria maoista», e a questa scelta ci avevano portato Giuliano Spazzali (poi avvocato del soccorso rosso milanese) e Gianpiero Mughini.

Non funzionava: con quel nome, nelle Langhe, figuratevi. Così avevamo deciso di cambiare e per scegliere con più cognizione chiedemmo a Potere Operaio e all’appena nato manifesto di venire a raccontarsi.

Vennero Dalmaviva e nientemeno che il prof. Salvadori, che già distribuiva volantini alla Fiat. Lui ha smesso quasi subito, ma furono le sue parole ad indurci a scegliere il manifesto.

Eravamo una cinquantina piuttosto significativa: un buon nucleo operaio, che contava anche Silvio Barbero dirigente Fiom, oggi vicepresidente del Cda della nostra Università di scienze gastronomiche di Pollenzo, ma anche parecchi cislini. La provenienza cattolica era del resto importante, Bruna Sibille in seguito è diventata persino sindaco di Bra.

Nel ’75 il «salto» anche per noi: ingresso nel Consiglio comunale con la lista del Pdup che qui a Bra prese addirittura il 15% di voti, un risultato record /di cui sarebbe stato fiero mio nonno che a Bra era stato, nel ’21, uno dei fondatori del Pci.

Negli anni ci allargammo a tutte le Langhe, nonostante la Dc avesse qui il 65% dei voti. Di noi dicevano: «Sono bravi, peccato siano comunisti».

Certo parlare di centralità operaia quassù, un mondo contadino che si stava sgretolando ma difendeva saldamente le sue radici, non era facile. Noi cominciammo a capirlo grazie a Nuto Revelli, e a renderci conto che la sua cultura conservatrice non lo rendeva nemico, anzi.

Io capii meglio nei miei frequenti e curiosi giri in Francia, in Borgogna soprattutto, dove il vino aveva plasmato non solo l’economia ma anche la cultura del territorio.

Quando tornavo a casa capivo meglio che da noi, la sinistra, non aveva colto che nella «civiltà» contadina c’erano anche valori da coltivare, che non era «dall’altra parte». Una tematica su cui abbiamo riflettuto molto anche con intellettuali straordinari con cui cominciammo ad incontrarci grazie a Bartolo Mascarello, piccolo produttore di un vino eccellente: nella sua cantina si riuniva spesso una brigata di ex azionisti che venivano da Torino: Bobbio, Primo Levi, Galante Garrone…

È qui che nacque l’idea di creare un contenitore editoriale specifico in grado di raccogliere la cultura contadina nella quale il cibo, non solo come nutrimento, ma come dato storico-identitario, costituisce il senso profondo.

Ne nacque il Gambero Rosso, naturalmente come inserto del manifesto, direttore Stefano Bonilli (ma aggiungo padre, perché direttore è troppo poco).

Per noi sinistra langhese, che avevamo già cercato di far rivivere i riti di origine pagana – l’«andar per l’aia» a «cantar le uova», e cioè radunare i giovani e insieme andar a Pasqua in giro per le cascine a farsi regalare le uova, per ridare un senso politico al cibo, e con questo alla Terra – il Gambero fu un momento decisivo per impegnarsi su un terreno che la sinistra aveva disertato.

Fino a che punto il manifesto e il Pdup capirono questa scelta? Sì e no. Ci fu certamente un incontro sulla problematica ecologica che in Italia era comparsa all’orizzonte solo all’inizio degli anni ’70 e cui prestò attenzione sin dall’inizio solo il manifesto e il Pdup (quando se ne parlò per la prima volta, Lotta Continua ci irrise scrivendo a tutta pagina «Come era verde la vostra vallata» per tacciarci da nostalgici del mondo rurale!).

E però quanto noi langhesi avevamo cominciato a fare stava diventando troppo grosso e importante per non dover prendere la strada della costruzione di un organismo autonomo: prima Slow Food – già 20 paesi associati con cui ci troviamo a Parigi nell’89, poi Terra Madre, con 160.

Nonostante la scelta necessaria dell’autonomia organizzativa col manifesto, anche dopo lo scioglimento del Pdup, siamo rimasti molto legati: rispondendo all’appello quando suonava la tromba della sottoscrizione; e, soprattutto, perché il giornale ha sempre mantenuto viva la curiosità culturale per quanto noi facevamo, un intreccio stretto fra tematiche ambientali e sociali.

Perché il giornale è depositario di una precoce intuizione politico-culturale, quella del significato del cibo, che insieme abbiamo sdoganato.

(Non è un caso che fra chi ci ha accompagnato nell’avventura della creazione dell’Università di Scienze Gastronomiche di Pollenzo ci sia anche Luciana Castellina, che infatti fa parte del suo Consiglio d’amministrazione).