Il 22 maggio 1978 viene pubblicata nella Gazzetta Ufficiale la legge 194 e l’aborto in Italia, a certe condizioni, diventa legittimo. Da allora questa legge è diventata il muro che argina un mai sopito tentativo di rimessa in discussione della possibilità delle donne di interrompere una gravidanza. Al punto che persino i pro-life nazionali più che chiederne l’abrogazione sono soprattutto impegnati a boicottarla, attraverso l’estensione dell’obiezione di coscienza. Mentre intere generazioni di femministe, di ginecologhe, operatori e medici hanno dedicato gran parte delle loro energie alla sua applicazione.

L’impianto della 194 riprende la sentenza della Corte Costituzionale n.27 del 1975 che aveva dichiarato non punibile l’aborto terapeutico, riconoscendo un importante principio di non equivalenza tra il diritto alla vita di chi è già persona e quello di chi persona deve ancora diventare. Fonda infatti la possibilità di interrompere una gravidanza sul diritto alla salute psicofisica della donna gestante. Questa depenalizzazione il Parlamento la inserì in un testo che intende tutelare la maternità responsabile, non a caso rilancia il ruolo dei consultori familiari, e attribuisce esclusivamente al servizio pubblico la presa in carico della donna.

L’approvazione è il frutto di lunghe e difficili discussioni parlamentari e di grandi mobilitazioni, che coinvolsero gran parte del movimento delle donne. È grazie a questa vera e propria lotta politica che il principio dell’autodeterminazione della donna, il riconoscimento che spetti a lei la scelta di interrompere o meno la gravidanza, è diventato un contenuto della legge. Ma nelle ultime e concitate fasi di discussione erano state introdotte due modifiche. Una sul coinvolgimento del padre, che fa il suo ingresso nella decisione, salvo parere contrario della donna. Nella prima formulazione veniva coinvolto se richiesto dalla donna. L’altra era l’abolizione della decisione autonoma delle minorenni.

Per questi limiti, uniti alla possibilità del ricorso all’obiezione di coscienza, alla sua approvazione la 194 non piacque al movimento delle donne, neanche a quella parte che più si era spesa per la legalizzazione e che aveva cercato di influenzare la scrittura delle nuove norme. Era l’area legata ai gruppi per la salute, che aveva sperimentato, autogestito e diffuso quelli che, con la legge istitutiva del 1975, sarebbero diventati i consultori pubblici. Soprattutto da questo mondo era nato il principio di autodeterminazione, elaborato non come semplice diritto di scelta, ma vera e propria presa di coscienza sul proprio corpo.

Era critica anche l’Unione donne italiane, storica organizzazione delle donne della sinistra che usciva da quegli anni trasformata dall’incontro con il femminismo e che aveva svolto un importante ruolo di mediazione per modificare la posizione del Pci a favore della decisione della donna.

La 194 da subito conosce molti ostacoli, soprattutto per la diffusione dell’obiezione. Nascono i «Comitati per l’applicazione della legge 194» per incalzare le Regioni su di essa e sulla diffusione dei consultori.
Presto in discussione tornano le stesse norme. Nel 1979 il partito radicale aveva depositato una richiesta di referendum per la completa depenalizzazione.

L’anno dopo il Movimento per la Vita deposita due richieste, una “massimale”, che di fatto abolisce la possibilità di abortire e una “minimale”, che consentiva solo l’aborto terapeutico. Nel 1981 la Corte costituzionale dichiara ammissibile il referendum radicale e quello minimale del Movimento per la Vita. La Democrazia Cristiana e le gerarchie ecclesiastiche si schierano a favore di quest’ultimo.
Nascono i «Coordinamenti per l’autodeterminazione della donna» formati da collettivi e Udi che, pur continuando a criticare il testo della 194, rifiutano entrambi i referendum, scegliendo di difendere la possibilità che le interruzioni di gravidanza avvengano solo in strutture pubbliche e che sia gratuito. Accanto a questi ci sono i «Comitati in difesa della 194» composti dalle donne dei partiti che hanno votato la legge.

I referendum si tennero il 17 e 18 maggio del 1981. La campagna referendaria è un tornante importante della storia dell’aborto. Siamo nello stesso anno dell’abrogazione del delitto d’onore. Sono passati solo dieci anni dalla sentenza della Corte Costituzionale che aveva cancellato il divieto della propaganda e dell’uso degli anticoncezionali. Fu una grande occasione di dibattito pubblico su aborto, sessualità, maternità responsabile, scelte procreative. Toni e modi di quella discussione hanno contribuito a definire la cultura diffusa delle italiane e degli italiani su un tema fondamentale per l’autonomia delle donne.

Entrambe le proposte referendarie furono respinte, quella radicale con 11,5% sì e 88,5% no, quella del Movimento per la Vita con 32% sì e 68% no. Divenne così evidente che la regolamentazione legale dell’aborto aveva il consenso della gran parte delle italiane e degli italiani, a qualunque latitudine vivessero. Non era successo nemmeno per il divorzio: in quel referendum il sud aveva votato per l’abrogazione. Questa volta no. Le donne conoscono da sempre l’aborto clandestino. Hanno svelato l’ipocrisia di un paese che vieta qualcosa, ma di fatto convive che le morti causate dalla clandestinità.

Nel fronte del No il richiamo all’aborto come dramma sociale, di cui la donna era vittima, aveva convissuto con la domanda femminista di libera scelta rispetto alla maternità. In qualche modo la prima immagine finiva per ridimensionare l’autodeterminazione a un beneficio particolare, riconosciuto alle donne che non sono in grado di affrontare la gravidanza. Questa ambivalenza nella discussione sull’aborto è tutt’oggi presente. Ma è indubbio che abrogando il reato, facendo emergere dalla clandestinità l’aborto e lasciando la decisione finale alla donna, la 194 ha rappresentato un passo indietro del controllo statale sul corpo femminile e il riconoscimento di una competenza delle donne. Non a caso siamo ancora a lottare per la sua applicazione.