Quando arrivo nella scuola «Gente grande», entro insieme all’educatore Kellen in un’aula dove una ventina di ragazzi stanno seguendo la lezione, c’è pure una quattordicenne con la figlia piccola in braccio addormentata tra i banchi. Chiedo loro di descrivere il quartiere con una parola, una sola. Stefania, il viso ovale e lo sguardo dolce, i capelli lunghi nerissimi, si alza in piedi, rompe il ghiaccio e dice a voce alta, rabbiosa, fudido, «fottuto», così mi dà il benvenuto nella Colônia Antônio Aleixo.

IL QUARTIERE SI TROVA in periferia, a un’ora di macchina dal centro di Manaus, è fatto di agglomerati di palafitte a ridosso del fiume, vie asfaltate polverose, suburbi di case costruite una vicina all’altra sulla terra argillosa e, intorno, la vegetazione lussureggiante della foresta. È nato con la dittatura militare di Getúlio Vargas nel 1930 per ospitare i malati di lebbra, poi è diventato la terra di nessuno degli ultimi, c’è molto lavoro infantile, prostituzione, spaccio, disoccupati cronici che vivono di sussidi, i bambini vanno in strada a vendere dolci e ghiaccioli, molte madri sono coinvolte nel traffico di droga e non si occupano di loro. Allora le figlie più grandi sono costrette a prostituirsi per allevare i fratelli piccoli, cominciano a otto, dieci anni, i clienti sono vecchi scapoli che cercano le bambine che si concedono per 5 reais, poco più di due euro, le portano al buio nella selva come gli orchi delle favole.

 

Un quartiere abusivo nato attorno a Colônia Antônio Aleixo (foto di Giovanni Marrozzini)

 

I BAMBINI della scuola convivono con un fantasma che li sbrana, la paura. Paura di uscire per strada, paura di vivere in casa con chi li ha nati e cresciuti, adulti ubriachi e irritabili che fanno ritorno all’alba tra le mura domestiche, quasi tutti hanno subito violenza sessuale.

STEFANIA LA CONOSCE BENE quella paura, le sue amiche sono scappate da casa, una di loro è stata abusata dal convivente della madre, la vicina aggredita da cinque sconosciuti, stuprata e uccisa nel bosco. Si vergogna a raccontare, abbassa lo sguardo. Per scappare da quella paura, per trovare un momento di tregua, alcuni di loro hanno accettato di togliersi dalla strada e di entrare nel progetto «Gente grande», dove educatori sociali insegnano loro le cose fondamentali della convivenza civile, avere cura di sé, rispettare gli altri, istruirsi, molti hanno già trovato un lavoro. È anche la speranza di Stefania, aiutare i genitori disoccupati e perduti, le brillano gli occhi mentre lo racconta, ha un cedimento, «nonostante tutto, voglio restare qui, far crescere questo quartiere e aiutare le persone» racconta emozionata, ingoiando la saliva.

ANCHE MARIA EDUARDA è una ragazzina consapevole, i genitori sono separati, il padre non l’ha riconosciuta, non lo vede da anni. «All’inizio ero molto dannata, non sopportavo nessuno» mi confessa. «Conosco ragazzini che vanno fino al centro di Manaus per pulire i vetri ai semafori o a fare i giocolieri per comprarsi le dosi, e c’è tanto bullismo nel quartiere», una violenza che spinge molti giovanissimi al suicidio. «Un anno fa una ragazzina che conoscevo, si è impiccata con una corda, e mentre moriva ha filmato tutto con il telefonino».

GISELL, UNA DELLE INSEGNANTI, li conosce bene questi ragazzi sfiorati dalla malora. «La mattina molti arrivano assonnati e ancora storditi, fumano marijuana e inalano cocaina, per loro la droga è l’unica saida, l’unico modo per fare soldi e avere un riconoscimento sociale». Gilson è uno piccolo di statura e scuro di carnagione, capelli corti, una corporatura gracile e un sorriso spento, che la vita gli ha tolto quasi del tutto. Mi racconta che ieri i poliziotti hanno arrestato due suoi amici, hanno offerto anche a lui tante volte di spacciare, ma ha sempre rifiutato. «Vendono droga, raccolgono i soldi, poi il venerdì vanno al bar a bere alcol, a tirare la cocaina nei bagni». Nel suo gruppo solo 4 su 20 non si drogano, giocano insieme a calcio al campo, lui è una punta, ha un sinistro potente, il suo sogno è andare a Parigi a conoscere Neymar, il numero 10 del Brasile.

«OGNI STRADA ha una “bocca di fumo”, dove si spaccia», racconta. I ragazzini girano armati, usano piccoli fucili a canne mozze, due che conosce, qualche giorno fa hanno ucciso un poliziotto, «hanno sparato colpendolo al fianco» racconta, adesso vivono randagi dentro case occupate che cambiano ogni notte, ma li stanno cercando. Due mesi fa ha perso suo fratello, morto d’overdose, l’ha visto cadere a terra, rantolare con la bava alla bocca, ha perso anche il padre trafficante, ucciso dalla polizia, pochi giorni prima, dice a bassa voce, lo sguardo inquieto, arrendevole, lo stavano inseguendo e si è fatto scudo con il corpo di una ragazza, gli hanno sparato a bruciapelo. Ma qui non si deve delinquere, è una regola non scritta dai trafficanti, chi ruba viene torturato con brutalità, o addirittura ucciso.

 

Alessandro, ex spacciatore, tornato a scuola grazie al progetto educativo «Gente Grande» (foto di Giovanni Marrozzini)

 

SOLO GIRANDO per il quartiere comincio a capire il senso di quella parola, fudido, in quella che chiamano «la via dei crudeli» non si potrebbe entrare, ma Kellen è un passepartout qui, si fidano di lui, ha fatto per anni “abbordaggio”, parlando con i ragazzi ai semafori e convincendoli a iscriversi a scuola. «Vedere la trasformazione dei ragazzi», dice, «è un completamento del mio essere cristiano». La via è breve, finisce a ridosso della foresta, la gente guarda torva dalle case, gli sguardi rettili, ostili, solo Barbara, una ragazzina di 14 anni, i tatuaggi di un gufo sul braccio, il corpo esile e delicato di una bambina e i modi sgraziati di una donna matura traviata, ancheggia ammiccante. Si prostituisce da quando ha 11 anni, nella foresta, con uomini di tutte le età. A metà via c’è una ludoteca, dove Mara fa prevenzione attraverso le favole, «per 5 reais le bambine si prostituiscono, una di loro è morta di overdose da poco, stanno molte ore in strada e per tenersi sveglie sniffano» racconta.

 

Barbara, 15 anni, si prostituisce da quando ha 11 anni (foto di Giovanni Marrozzini)

 

IN FONDO C’È IL CIMITERO, le tombe sono tutte a terra, fatiscenti, fatte di legni marci e croci colorate di azzurro. Alcuni ragazzi stanno fumando erba seduti sulle tombe, gli occhi annebbiati, altri inalano coca, Jumili, una ragazza sedicenne ride, mentre svagata, quasi indifferente, sistema quella del marito, ucciso dalla polizia due mesi fa. «Con Bolsonaro al potere la polizia è diventata più aggressiva, sparano addosso, quest’anno ci sono stati dieci morti», racconta con rabbia.

 

Jumili, 16 anni, davanti la tomba di suo marito ucciso due mesi prima dalla polizia in uno scontro a fuoco (foto di Giovanni Marrozzini)

 

QUI IL LEADER del Partito social liberale di estrema destra ha vinto con l’82% dei consensi, soprattutto per le false promesse, e per la liberalizzazione della vendita di armi. Antonio, un anziano seduto in carrozzina fuori da un negozio del quartiere dell’associazione dei lebbrosi, i moncherini di entrambe le gambe e delle mani, dice che aveva ottenuto il salario minimo quando c’era Lula al potere, «adesso il governo rivuole tutti i soldi avuti in questi anni, promettevano che avrebbero mantenuto tutti i benefici» racconta infuriato, «invece ora vuole toglierli».

IN RUA JOÃO DE PAULA, una via larga con uno spartitraffico d’erba, ai lati case grezze di mattoni e tetti di lamiera, sopra la vegetazione della foresta, le fronde degli alberi a ricoprire i tetti, le molte parabole satellitari, dalla strada salgo verso la casa di Alessandro, un quindicenne magro e dalla carnagione ebano che indossa la maglia del Flamengo. Mi accoglie in una baracca di legno, stretta e buia, dietro c’è un altro casotto, dove dormono in sette. Ha iniziato a spacciare a 11 anni, lavorava ai semafori di Manaus dalle 7 del mattino fino a mezzanotte, «il fumo aiuta a dimenticare» dice, «mentre la cocaina tiene svegli, la pasta basica spinge a usarne sempre di più, ti manda fuori di testa e ti fa immaginare cose che non esistono«. L’anno scorso però ci ha dato un taglio, adesso frequenta la scuola. Dice che gli capita di «pensare al futuro», prima non sapeva cosa fosse.

 

Fumando erba nel cimitero di Colônia Antônio Aleixo (foto di Giovanni Marrozzini)

 

IN UN’ALTRA CASA, alla fine della via, incontro Andreina, spacciatrice, come suo fratello Najim, anche lui vende droga, solo uno dei sei figli ha frequentato la scuola e fa il fornaio. La madre, una donna corpulenta vestita di nero, ha votato il Partito dei lavoratori (Pt), «Bolsonaro sta tagliando i sussidi, si accanisce contro i poveri, ha innalzato l’età della pensione» dice facendo una smorfia di insofferenza. Nella chiesa di San Francesco d’Assisi incontro padre Gaston, argentino, alto e magro, gli occhiali da vista con la montatura dorata, che anche se è qui da poco ha cognizione come pochi del quartiere: «È il posto degli indesiderati, gli scarti, i malati contagiosi, criminali pericolosi, gli orfani, c’è un carcere con 2000 detenuti». I bambini ospitati nella struttura di accoglienza non vogliono tornare a casa: «Sono terrorizzati», racconta, «gli adulti hanno quasi tutti problemi di alcolismo, usano drogaccia, derivati dalla cocaina mischiati con il gesso, la realtà più crudele è quella dei bambini qui».

LUI LAVORA IN CARCERE, incontra e parla con i detenuti, quelli che erano accolti qui da piccoli, «ma guarda, dove sono finiti!» dice, «lo stigma resta come un marchio impresso a vita». Forse accoglierli è quella che chiama «una tregua, una sosta della speranza, è una cura palliativa o produce cambiamento». S’interroga dubbioso, ma gli educatori vivono tutti qui e ricevono una borsa, «con quei soldi sono riusciti a laurearsi, è questo è già un effetto positivo». La scuola e il progetto «Gente grande» nascono nel 2017, dopo il lavoro di abbordaggio di strada, mi spiega Elaine Elamid, brasiliana di Manaus, che con il marito Tommaso Lombardi ha dato vita alla ong Piccolo Nazareno.

«MOLTI RAGAZZINI non hanno il certificato di nascita, non esistono, non sono cittadini» mi spiega davanti al Teatro Amazonis, seduti ai tavolini di Africa house, «fino a ora ne abbiamo già inseriti 420, si cominciano a vedere i primi cambiamenti, li aiutiamo a pensare che c’è un’altra possibilità per loro» mi spiega. Alcuni hanno già trovato lavoro alla Transivi, un’azienda di elettronica che produce terminali POS per carte di credito, «il capo era un ragazzo delle favelas di San Paolo, è lui che ha cercato noi». Una volta assunti per loro inizia una nuova vita. «La nostra idea è tagliare una generazione da quel miasma che infetta la Colônia Antônio Aleixo, e in questo modo produrre un cambiamento profondo», dice determinata, «anche se con Bolsonaro sono peggiorate molte cose, ha tagliato la Borsa famiglia, ha chiuso il Consiglio nazionale per i diritti dei bambini, e tutto diventa più difficile».

 

Ragazzi del quartiere Colônia Antônio Aleixo coinvolti nel progetto «Gente grande» (foto di Giovanni Marrozzini)

 

TOMMASO ED ELAINE hanno un altro sogno, comprare una barca e impiantarci una scuola galleggiante per raggiungere i villaggi circostanti, aprire biblioteche e fare iniziative sulle culture indigene e la conservazione dell’ambiente. Un sogno come quello di Fitzcarraldo, Brian Sweeny Fitzgerald, che proprio nel teatro che abbiamo davanti aveva sentito cantare il grande Caruso e voleva costruire un teatro dell’opera a Iquitos, in Perù. Per farlo dovette trascinare una nave a vapore di 320 tonnellate fino a un’altura per poi riportarla sul Rio delle Amazzoni. «Chi sogna può muovere le montagne» dice, infatti, più volte nel film il protagonista, l’allucinato e febbrile Klaus Kinsky.