Il taxi corre come la lingua del suo autista. Ali al Mallah è un fiume in piena. I profughi siriani sono il bersaglio. Le parole ricordano quelle che ripetono i leghisti nel nord-est italiano. «I siriani ci stanno rubando il lavoro» ci spiega mentre ad alta velocità andiamo da Sidone verso Beirut. «Quel ragazzino lì che vende fazzoletti di carta? È un siriano. Il garzone della panetteria? È un siriano. E quelli che portano quei sacchi? Tutti siriani, tutti siriani». Alza la voce al Mallah quando ci racconta del lavoro che avrebbe perduto a causa dei profughi siriani. «Fino a poco tempo fa ero un camionista, non un taxista, – premette – poi il proprietario della ditta di trasporti mi ha licenziato e con i 1.200 dollari del mio stipendio ha preso a nero due autisti siriani. Ormai (i profughi) ci sostituiscono in tutto e per tutto anche se la legge vieta loro di lavorare in Libano. A nero entrano ovunque. Li incontri pure nei cantieri edili, come ingegneri non più solo come manovali». Vero, falso? Di sicuro il taxista che ci porta a Beirut esprime la rabbia di una buona fetta di libanesi per la presenza di un milione e mezzo di profughi – tra quelli registrati e quelli “illegali” – giunti dalla Siria negli ultimi cinque anni. Un siriano ogni quattro libanesi, più o meno. Numeri che hanno quasi del tutto azzerato la solidarietà verso chi scappa dalle distruzioni, dai combattimenti e che, se cerca un lavoro, lo fa perchè non riesce, con il solo sussidio mensile delle Nazioni Unite, a sopravvivere.

Il Libano non ha mai firmato la Convenzione internazionale sui Rifugiati del 1951 e considera i profughi siriani degli “sfollati”. Il 71% dei siriani entrati nel Paese dopo il 2011 vive sotto la soglia di povertà (3,8 dollari al giorno), il 50% è in condizioni di povertà estrema. Molte famiglie sono costrette a non mandare i figli a scuola perché contano sul lavoro minorile per sfamarsi. Da tempo anche violenza, discriminazione e razzismo prendono di mira chi è arrivato dalla Siria. Una recente indagine del Centro libanese per i diritti umani riferisce che l’85% dei profughi siriani denuncia di non avere in Libano la sicurezza e la serenità che sperava di trovare. Il precedente governo libanese a partire dal 2014 ha adottato gravi misure restrittive e poi, nel 2015, ha chiesto alle Nazioni Unite di non registrare più profughi. L’esecutivo libanese ha di fatto chiuso le frontiere, vincolando gli ingressi al pagamento di centinaia di dollari per l’ottenimento del permesso e della garanzia di uno “sponsor”. Una somma fuori dalla portata di famiglie che il più delle volte hanno perduto tutto in Siria e composte in media da da 8-10 persone. Molti siriani perciò si trovano in Libano senza documenti, esposti al pericolo di una espulsione immediata se fermati ai posti di blocco o arrestati durante le operazioni di esercito e polizia.

È pesante l’aria che si respira quando si va nella Valle della Bekaa, a ridosso del confine con la Siria, una delle regioni del Libano che accoglie più rifugiati, circa 360 mila, secondo i dati forniti dall’Unhcr. Sono sistemati in buona parte in campi “informali” fatti di tende e strutture leggere o in alloggi di fortuna: garage, stanze e scantinati. «In ogni caso devono pagare un affitto ai proprietari dei terreni dove hanno montato le tende» ci spiega Giuseppe Russo, responsabile in Libano dei programmi del Gvc (Gruppo di Volontariato Civile, un’organizzazione laica non governativa di Bologna), «le condizioni di vita sono difficili. Nei campi informali scarseggiano cibo, medicinali e acqua potabile». Il Gvc ad Hermel porta avanti un programma per il rafforzamento della resilienza delle popolazioni siriane rifugiate e anche delle comunità locali, grazie alla fornitura di servizi di base. Offre in una dozzina di villaggi della Bekaa sostentamento alle famiglie siriane e libanesi più vulnerabili. E lavora per il miglioramento dell’accesso ai servizi idrici e igienico-sanitari per i rifugiati siriani. «L’elevato numero di profughi ha portato al collasso dei servizi sanitari locali – aggiunge Russo – le tensioni sociali perciò sono forti e noi speriamo di poter contribuire a ridurle migliorando l’accesso ai servizi sanitari ed idrici». Non si lamentano invece i proprietari terrieri libanesi che ospitano i campi “informali”. Grazie ai siriani si sono garantiti una rendita sicura oltre a braccia a buon mercato da impiegare nel lavoro agricolo.

All’interno di questo quadro di grande difficoltà, le donne siriane risultato le più penalizzate, sia per l’accesso scolastico che per la loro sicurezza personale. «Le ragazze (siriane) adolescenti sono le più vulnerabili» ci dice Marta Ricci, sempre del Gvc, «hanno bassi livelli di iscrizione scolastica e anche quando sono iscritte non riescono a frequentare. I genitori per proteggerle preferiscono non farle allontanare dal nucleo familiare. Questo ha come conseguenza diretta un aumento dei matrimoni in giovanissima età e delle gravidanze precoci». Inoltre, aggiunge Ricci, «sappiamo dell’esistenza di un traffico di esseri umani che riguarda soprattutto le giovani, senza dimenticare lo sfruttamento nel lavoro che vede le donne lavorare per molte ore, spesso in agricoltura, ed ottenere una retribuzione largamente inferiore rispetto a quella già bassa offerta agli uomini». Il Gvc e Terre des Hommes Italia – che fra i tanti progetti eroga servizi specialistici ai bambini e adolescenti siriani e libanesi a rischio di violenza nella Bekaa settentrionale e di recente ha inaugurato, assieme alla Uisp, un campo sportivo a Jdeideh Fekehe, per favorire l’integrazione di 800 bambini e adolescenti libanesi e siriani – erano, almeno fino a qualche giorno fa, le uniche ong straniere autorizzate ad entrare e operare, sia pure con grande fatica, nell’area di massima sicurezza di Masharia al Qaa che ospita all’incirca 30,000 rifugiati siriani. Dopo gli attentati suicidi che in questa zona prima dell’estate fecero cinque morti, la presenza dell’esercito si à fatta massiccia e nessuna ong per mesi ha avuto accesso nella zona lasciando i profughi in condizioni disperate. I campi informali da allora sono circondati e soggetti a blitz improvvisi dell’esercito alla ricerca di “jihadisti”.

Della protezione e dell’assistenza ai profughi siriani si occupano anche i ragazzi della Giovanni XXIII, presenti da anni nei campi informali della regione di Akkar, all’estremo nord-est del Libano. «Viviamo con loro, assieme a loro, facciamo parte, con discrezione, delle loro comunità», ci racconta uno di loro A.L. che ha chiesto l’anonimato «i problemi sono enormi e non solo legati alle condizioni di vita. Cerchiamo, con la nostra presenza, di offrire una protezione passiva ai profughi soggetti a raid delle forze militari e talvolta ad attacchi da parte di civili libanesi. Ci occupiamo inoltre di garantire l’accesso dei profughi alle strutture sanitarie. I costi delle cure sono in gran parte coperti ma i medici libanesi non lo dicono ai pazienti siriani allo scopo di ottenere pagamenti non dovuti».