Case con persiane «ermeticamente chiuse», dentro le quali si celano vite segrete, «proprio come la casa dei Lacroix»: la consuetudine del narratore di Georges Simenon a giocare a carte scoperte fin dalle prime battute raggiunge, soprattutto in alcuni romanzi collettivi della sua bibliografia «francese» (quella precedente alla Seconda guerra mondiale), momenti di aggressiva complicità con il lettore, espressa icasticamente, tra i molti segnali morfologici, nell’uso ingente di punti esclamativi per concludere frasi rivelatrici o descrizioni pregnanti, a significare (e simulare) una franca partecipazione al fatto raccontato. «E in fondo era abbastanza naturale, trovando una porta socchiusa, aprirla del tutto!», si legge a metà del primo capitolo di Le sorelle Lacroix, ottimamente tradotto da Federica e Lorenza Di Lella (Adelphi «Biblioteca», pp. 171, € 18,00). L’esclamazione conclude la scena di una anziana signora che si introduce nella camera da letto di sua nipote per «controllarla»: si potrebbe racchiuderlo come uno dei passaggi nei quali il narratore si focalizza sul punto di vista interno, in questo caso dunque una frase pensata dalla piccola Viève. Eppure quel punto esclamativo è una firma inconfondibile. Questo narratore – generoso e spregiudicato al tempo stesso – impone un’atmosfera di tensione già dalle prime battute, quando proprio la giovane di provincia – siamo in una cittadina del Calvados negli anni trenta – comincia a mostrare i primi segni della malattia che la costringerà, e con lei il lettore, a rinchiudersi nell’asfittica dimora delle sorelle Léopoldine e Mathilde Lacroix.

Il tema della relazione complessa tra fratelli (o sorelle) – per lui che aveva avuto un fratello minore, Christian, poi morto nella Legione Straniera, con il quale il rapporto non era stato facile – è sempre stato a cuore a Simenon, che ne ha ricavato diversi e più maturi romans durs (tra cui spiccano per cupo nitore Il fondo della bottiglia, 1949, e I Fratelli Rico, ’52) e qualche Maigret. Tra questi ultimi, in Un delitto in Olanda, scritto a bordo dell’«Ostrogoth» nel ’31 – Les soeurs Lacroix uscì da Gallimard nel ’38 – si racconta di un uomo conteso tra sua moglie e, tra le altre spasimanti, sua sorella. In quel caso il velo ipocrita delle «persiane chiuse», che aveva generato un fatto di sangue, veniva squarciato dall’inesorabile commissario, mentre per i disastri di casa Lacroix non c’è redenzione.

Poldine e Mathilde sono intrappolate nel proprio odio reciproco e tengono nella morsa anche gli altri inquilini della casa: oltre all’adolescente Geneviève (detta Viève), figlia di Mathilde, che si ammala, ha le premonizioni, e finirà per atteggiarsi a santa visionaria (lei nata il giorno in cui venne alla luce il tradimento fra sorelle, ha assorbito su di sé il dolore della famiglia fino a impazzirne), due altri ragazzi, Jacques, fratello di Viève, e Sophie, figlia di Poldine; infine lo sventurato marito di Mathilde, Emmanuel, che da quando è stato sorpreso dalla moglie in soffitta con Poldine, diciassette anni prima dei fatti narrati, vive pressoché barricato nel suo atelier nel quale lavora come restauratore e coltiva segreti sogni di un tardivo o addirittura postumo riscatto «nell’arte», lasciato poi intravedere dall’autore con un tocco di perfidia e subito sbiadito in una vena di dissipazione.

Il marito di Poldine invece vive all’estero, ed è subito chiaro che si è trattato di un matrimonio di facciata reso necessario da ambigue circostanze. Léopoldine e Mathilde, le sorelle Lacroix, sarebbero dunque entrambe sposate: ma tutti le chiamano Lacroix, ciò che sancisce la loro immutabilità e immobilità, loro e della loro proprietà. Mathilde non parla con Emmanuel da diciassette anni, i figli soffrono e somatizzano, le sorelle si odiano. Si legge nell’incipit del secondo capitolo: «Così come il contatto con un oggetto qualsiasi interrompe di colpo l’ebollizione del latte, la presenza di un qualunque estraneo bastava a ridare un volto banale al subbuglio interiore della casa».

Le cose sembrano prendere una nuova piega quando Poldine scopre, attraverso indagini degne di un detective con tanto di analisi scientifica della zuppa, che sua sorella o più probabilmente il suo cognato ed ex amante stanno provando ad avvelenarla con l’arsenico. Di ritorno dal laboratorio, a cena, sorprende tutti con la frase sibillina: «Il medico mi ha raccomandato di non mangiare più la zuppa!». La tensione montante della prima parte del romanzo (insolitamente, per Simenon, diviso in capitoli e «Parti») raggiunge qui il suo culmine, e se da un lato sembra virare al noir, dall’altro quasi parrebbe stemperarsi, inseguendo il topos dell’arsenico a piccole dosi, in una commedia da camera, nella quale dietro le porte chiuse, nella penombra delle luci della sera, ci si industria a preparare veleni con fialette riscaldate e si studiano prontuari medici. Così come per le visioni mistiche di Viève, che tiene il conto delle preghiere e dei giorni di indulgenza accumulati, anche le schermaglie sul veleno bordeggiano l’umoristico ma aprono anche a una più spaventosa prospettiva sulla profondità della sofferenza psichica degli abitanti di casa Lacroix.

Un ennesimo presagio funesto emerge attraverso un passaggio che sembra preso in prestito da una inchiesta di Maigret: Sophie cerca un vecchio giornale di una certa data per completare la collezione del feuilleton, ma fra tutti i vecchi quotidiani, proprio quel numero sembra scomparso. Questa banale ricerca coinvolge dapprima tutta la famiglia e scatena poi una vera e propria caccia, gravida di sottesi e sospetti (chi lo ha preso? cosa c’era scritto sopra? Una volta ritrovato, il giornale si rivelerà contenere un trafiletto di cronaca dalle implicazioni sinistre).

L’evento luttuoso infine, arriva. Anche stavolta le sorelle Lacroix si impongono di assorbirlo con una impassibilità odiosa e cinica. Poco prima erano state pronunciate a Mathilde le parole disperate sulla «verità delle verità» che le due sorelle non vogliono ammettere: non la gelosia, non l’odio reciproco, né gli accadimenti della vita o gli affetti; ciò che le tiene in vita, immobili, è la reciproca ed esclusiva dipendenza.
Sotto l’urto di queste parole, e dopo le tragiche conseguenze che esse scatenano, le sorelle ottengono lentamente ciò che forse hanno sempre desiderato: la solitudine. «Sentì un vuoto immenso intorno a loro due», pensa una delle due. È l’accenno di una epifania subito soffocata nel silenzio, nella routine di tutti i giorni, nella «rispettabilità» a tutti i costi. Simenon completa uno dei suoi asfissianti ritratti di provincia della fine degli anni trenta, riuscendo a rendere quasi tangibili quelle «persiane chiuse», e provocando nel lettore il gesto automatico più semplice, quello di volerle spalancare, ciò che per i suoi personaggi sembra a volte rivelarsi una liberazione impossibile.

Resta difficile da dimenticare il personaggio insinuante di Léopoldine, dominatrice al limite del sadico e gelida come «il blocco di marmo» al quale Emmanuel si ispira per farle un dipinto a olio. Il ritrattista maldestro sbaglia, e il risultato è spaventoso e sformato: il dettaglio di una mano sproporzionata sembra quasi uscire fuori dalla descrizione in pagina, proteiforme e diabolico, proprio come in un quadro di Léon Spilliaert, il pittore di Ostenda accostato felicemente da Roberto Calasso al romanziere di Liegi, e utilizzato per molte copertine delle edizioni Adelphi, inclusa quella delle Sorelle Lacroix.