L’impresa non è riuscita per un soffio. Al referendum di domenica, il sì alla revoca di 135 articoli della contestatissima “Legge di considerazione urgente” (Luc), una legge omnibus riguardante, tra l’altro, iniziative in materia fiscale, di sicurezza, di educazione, di diritto alla protesta, di diritti del lavoro non è passato per appena 22.500 voti: 49,86% contro 51,18%.
La posta in gioco era altissima: in ballo non c’era solo un referendum su una legge aspramente criticata dall’opposizione, dai sindacati e dalle organizzazioni sociali, ma un plebiscito sullo stesso governo di Luis Lacalle Pou e, ancor di più, su una modalità di governare a bassissima intensità democratica.

LACALLE POU lo aveva annunciato già prima di essere eletto nel 2020: se avesse conquistato la presidenza, avrebbe immediatamente inviato al congresso un progetto di legge «di considerazione urgente» – quindi sottratto al dibattito politico e sociale – su «tutto ciò che andava modificato dello Stato», includendo «educazione, sicurezza, politiche abitative, economia, questioni amministrative». In maniera da realizzare in quattro e quattr’otto, già durante il primo anno di governo, tutti i cambiamenti ritenuti necessari. E pazienza che il ricorso a tale meccanismo fosse incostituzionale, in assenza di un’urgenza preesistente chiaramente individuata.

Il presidente però era stato di parola: il progetto della Luc era stato presentato in parlamento il 23 aprile del 2020 ed era stato approvato nella sua versione finale – con 475 articoli relativi a una quarantina di materie diverse – già l’8 giugno, in appena 45 giorni e con i soli voti della maggioranza.
Un precedente pericoloso: cosa succederebbe, si è interrogato l’analista uruguayano Leandro Grille, se in un paese, ogni cinque anni, «un nuovo governo presentasse una norma di 500, 1.000 o 2.000 articoli su 50 o 100 temi riguardanti lo Stato e la vita sociale?».

E l’allarme era stato lanciato con forza dalla Commissione nazionale per il Sì, la quale aveva evidenziato come l’approvazione, sotto il meccanismo della «considerazione urgente», di «centinaia di articoli su più di 40 materie, senza lo studio necessario e senza la partecipazione di attori sociali, accademici ed esperti», rappresentasse «un cammino pericoloso» destinato a indebolire il tessuto democratico del paese, alterando l’equilibro dei poteri e impedendo «la necessaria interazione tra i rappresentanti politici e la società nel suo insieme».
Quanto ai contenuti, il giudizio delle forze popolari non poteva essere più negativo, a fronte di una legge che, tra molto altro, limitava il diritto allo sciopero, riduceva i tempi degli sfratti, eliminava l’obbligatorietà dell’educazione primaria, estendeva il concetto di legittima difesa alla sfera dei beni materiali, aumentava il limite all’utilizzo del contante e autorizzava la privatizzazione di settori strategici dell’impresa petrolifera statale Ancap.

LE FORZE di opposizione, tuttavia, si erano subito mobilitate, riuscendo a compiere una sorta di miracolo: quello di raccogliere in piena pandemia, nell’arco di 6 mesi, senza alcun sostegno da parte dello Stato e con una campagna autofinanziata, quasi 800mila firme, ben più delle 673.592, pari al 25% degli aventi diritto, necessarie per lo svolgimento del referendum: un record per iniziative di questo tipo nel paese.
Il secondo miracolo, quello atteso per domenica, non si è invece realizzato. Ma con il governo stesso impegnato attivamente nella propaganda, un’informazione tutta sbilanciata a favore del No e senza finanziamenti, non era davvero possibile fare di più.