Premiata in apertura con la Carrosse d’or, il premio alla carriera della Quinzaine des realisateurs, Kelly Reichardt «chiude» il concorso del festival di quest’anno con Showing up, un film che, a partire dal sottile doppio senso del suo titolo (il gioco di parole è tra to show up, esserci, e show, inteso come mostra d’arte o spettacolo) racchiude in sé, le qualità essenziali del cinema reichardtiano -il minimalismo non pretenzioso, la precisione, l’umorismo leggero, elusivo, l’affilatezza dello sguardo.
L’America riattraversata, era il bel titolo della retrospettiva che il Centre Pompidou dedicato l’autunno scorso a questa regista che fin dall’esordio, River of Grass, ha ri-attraversato il paesaggio americano, geografico e dell’immaginario, con grazia, dolce irriverenza e determinazione ferrea Come sempre, il luogo ha un ruolo fondamentale. Showing up è ambientato in un piccolo college dedicato alle arti e all’artigianato nel Pacific Northwest, dove Reichardt aveva già girato Wendy and Lucy, First Cow e Old Joy.

SE IL PAESAGGIO naturale ha un ruolo meno centrale che in quel film, gli alberi che costeggiano le strade della cittadina universitaria, sempre lievemente agitati dal vento e i giardinetti dietro alle case, extra-rigogliosi per via delle piogge abbondanti della regione, contribuiscono a dare l’idea di piccolo universo in armonia, lontano dai grossi centri urbani e dall’America polarizzata dei titoli di testa. Un eden un po’ astratto dal mondo, dove gli studenti coltivano il loro talento artistico come in una nuvola -hippie del terzo millennio. Le appuntite sculture di Lizzie Carr (Michelle Williams, al quarto film con Reichardt), bellissime statuine di donne, in terracotta, i cui contorni tormentati, e i colori pastello, ricordano dei quadri di Egon Schiele, contrastano con quell’atmosfera di placida ineffabilità.

LIZZIE, che lavora come segretaria al college, sta cercando di ultimare i pezzi per la sua prima mostra importante. Un’impresa complicata da piccole vicissitudini di famiglia, un bagno rotto per cui non può farsi la doccia, il forno delle ceramiche che non funziona bene e da un piccione malconcio dopo essere finito tra le zanne del suo gatto. In realtà (ed è il sottile argomenti del film) la complicazione è un po’ Lizzie stessa- solitaria, introversa, quasi petulante, una perenne ruga di preoccupazione all’incontro delle sopracciglia. Come già aveva fatto in Certain Women 

La redazione consiglia:
Kelly Reichardt, alla ricerca di un’identità perduta (uno dei suoi film più belli e sottovalutati), Reichardt mette in scena le spigolosità di un personaggio – e gli stereotipi del femminile associati a quegli spigoli- invitandoci un po’ a sorriderne un po’ a riconsiderarli. Se Lizzie prende tutto troppo sul serio, Jo Tran (Hong Chau), la sua vicina e padrona di casa (quindi responsabile del bagno rotto) è esattamente l’opposto. Scultrice anche lei, Jo esiste in un mood di spensieratezza totale, al limite del menefreghismo.

Lizzie, che lavora come segretaria al college, sta cercando di ultimare i pezzi per la sua prima mostra importante. Un’impresa complicata da piccole vicissitudini di famiglia

LE SUE SCULTURE – ariosi mobiles fatti di stoffa colorata, pane e carta – sono lo specchio del suo carattere e del suo comportamento- senza preoccupazioni, fantasioso, estroverso. Perfetto il casting delle attrici, ma anche quello delle artiste che Reichardt ha scelto per rappresentarne le rispettive personalità, la californiana Jessica Jackson Hutchins (autrice delle sculture di Lizzie) e la newyorkese Michelle Segre (quelle di Jo). A queste artiste Reichardt aveva dedicato due cortometraggi realizzati per la serie al Pompidou.
Nella corsa verso il giorno dell’inaugurazione (scena bellissima, forse la più densamente popolata che la regista abbia mai diretto) lo sparring tra le due amiche/nemiche è il cuore del film che (considerando l’avversione istintive che Reichardt ha per la presenza di costrutti drammatici nei suoi film) è quanto di più vicino si possa immaginare a uno slapstick. Coscenaggiatore di Showing Up è Jon Raymond. Alla fotografia Cristophe Blauvelt.