Comincia con un’inquadratura da sotto un camion in piena corsa, mentre sta inseguendo la moto del protagonista, l’ultimo lavoro diretto da Hideaki Anno, Shin Kamen Rider, il terzo capitolo di quel progetto che riprende vecchie ma valide serie televisive e cinematografiche tokusatsu per rivitalizzarle. Fin dalla primissima scena viene ribadito come si tratti di un lavoro stilisticamente in continuità con gli altri due lungometraggi creati dal gruppo di lavoro capeggiato da Anno e Shinji Higuchi. Dopo Shin Godzilla, senza dubbio fino ad ora il migliore del gruppo, e l’anno scorso Shin Ultraman, scritto da Anno e diretto da Higuchi, è ora la volta dell’eroe mutante e mascherato in motocicletta, nelle sale giapponesi dallo scorso 17 marzo. L’amore di Anno e Higuchi per le serie tokusatsu (serie e film che fanno ampio uso di effetti speciali) degli anni sessanta e settanta risale alla loro giovinezza, si vedano ad esempio i lavori amatoriali che i due hanno realizzato nei primi anni ottanta, su tutti Daicon Film’s Return of Ultraman del 1983. La passione per queste serie classiche è l’elemento che più emerge anche in questo Shin Kamen Rider, che omaggia personaggi, situazioni, scene e archi narrativi creati dal mangaka Ishinomori Shotaro su carta e sul piccolo schermo nel 1971.

IL FILM INIZIA, come già scritto, con un inseguimento e con la storia in medias res. Il protagonista, Takeshi Hongo, scappa in moto insieme a Ruriko Midorikawa, la figlia di uno scienziato che ha modificato il corpo di Takeshi in modo da farlo diventare un mutante dotato di una forza straordinaria. Coloro che li inseguono sono i membri dell’organizzazione S.h.o.c.k.e.r., un gruppo che vuole influenzare e modificare il corso del genere umano, formato – come nella serie originale – da cattivi che assumono surreali forme derivate dal mondo zoologico. Quest’estetica kitsch ed esageratamente appariscente, uomini pipistrello, donne ape e scorpione, salti irreali e corse mozzafiato, si intrecciano con il tipico stile visivo di Anno e Higuchi, oramai diventato un marchio di fabbrica: grandangoli, primi piani ravvicinatissimi, angolature inusuali e deformate, il tutto tenuto insieme da un montaggio veloce, ritmato ed aggressivo.

SE LA PRIMA PARTE, proprio perché presenta diversi personaggi malvagi della S.h.o.c.k.e.r che occupano lo schermo solo per un breve periodo di tempo, fa un po’ fatica ad ingranare, la seconda metà del film migliora decisamente. La trama principale, che ruota attorno a Takeshi e Ruriko e la loro relazione, prende il sopravvento e il lungometraggio si ricompatta. Questo anche grazie all’ottima prestazione di Hamabe Minami nel ruolo della protagonista femminile – i personaggi donne creati dall’animatore e regista continuano ad essere i migliori – e a quelle di Sosuke Ikematsu e soprattutto Tasuku Emoto nelle parti dei due Kamen Rider. La storia vera di Hiroshi Fujioka, l’attore che interpretava Takeshi nella serie originale e che si fratturò la gamba in una scena, fatto che costrinse i produttori a portare nel telefilm un Kamen Rider 2 interpretato da Takeshi Sasaki, è qui ripresa e citata per la felicità degli appassionati.

La redazione consiglia:
Godzilla e il dolore dei sopravvissutiPer quanto riguarda la fotografia, è più curata rispetto a quella di Shin Ultraman che soffriva di un eccesso di stilizzazione, qui i colori grigi e generalmente freddi delle location usate, quasi tutte di tipo industriale o naturale, formano un interessante contrasto con quelli più accesi e appariscenti, rossi, gialli e blu, dei costumi, soprattutto dei membri della S.h.o.c.k.e.r. Purtroppo nessuno di questi cattivi è memorabile però, incluso il personaggio interpretato da Mirai Moriyama a capo dell’organizzazione criminale. Anche se, in generale, le scene d’azione sono ben realizzate e ipercinetiche, alcune sfociano in uno stile da videogame che stona un po’ con il resto del lungometraggio. Impreziosiscono il film alcuni inserti animati, l’uso delle musiche delle prime serie di Kamen Rider, quelle andate in onda agli inizi degli anni settanta, e alcuni cameo di attori che ritornano dopo aver preso parte agli altri lavori Shin. Fra questi ricordiamo almeno Shin’ya Tsukamoto nella parte del professore che ha modificato il corpo di Takeshi, parte perfetta per il regista di Tetsuo.
Shin Kamen Rider è nel complesso un buon film che intrattiene e diverte, soprattutto se si è appassionati della serie originale e di quelle successive, ma la ricerca quasi ossessiva di ricreare scene, personaggi e situazioni rischia a lungo andare di appesantire il lungometraggio e di ostacolarne l’andamento. In altre parole non permette al film di essere qualcosa che sì renda omaggio al passato, ma che allo stesso tempo diventi qualcosa di nuovo che possa stare in piedi anche come opera a sé stante. Questo equilibrio, perfetto in Shin Godzilla, film che ha aperto una nuova strada nel franchise e che è anche una potente critica al sistema politico giapponese e al post-Fukushima, qui risulta essere invece un po’ precario.