La Corte suprema di Dacca rivede il sistema delle quote che ha innescato proteste in tutto il paese, ma la sentenza non basta a fare luce sulle responsabilità politiche per le 163 vittime accertate finora. Così sostengono gli studenti, che hanno dato al governo un ultimatum di 48 ore per accogliere tutte le loro richieste.

DOMENICA 21 LUGLIO la Corte suprema bangladese ha accolto solo la principale richiesta del «movimento contro le discriminazioni», negando la validità con cui il 5 giugno l’Alta corte aveva reintrodotto il sistema delle quote riservate nei posti di lavoro pubblici agli eredi dei veterani di guerra. Dal 30%, la quota per figli e nipoti dei combattenti per l’indipendenza dal Pakistan passa al 5%, dal 36% al 2% per altre minoranze.

Per il governo della prima ministra Skeikh Hasina, leader dell’Awami League e al potere ininterrottamente dal 2009, la partita è chiusa. Mantenuta la promessa allusiva con cui aveva cercato di placare le acque: «Aspettate il verdetto della Corte suprema», ha dichiarato giovedì scorso dopo aver alimentato lo scontro dando dei traditori della patria ai manifestanti e prima di imporre un coprifuoco nazionale con ordine – riportano diverse fonti – di sparare a vista, ancora in vigore. Il verdetto verrà ufficializzato oggi sulla Gazzetta, ha annunciato Anisul Hug, ministro della giustizia da ben dieci anni.

Anche per lui la partita è chiusa: «La loro principale richiesta è stata soddisfatta, spero che gli studenti che protestano tornino a casa». Parole simili a quelle del già ministro dell’informazione e ora ministro degli esteri Hasan Mahmud, che avrebbe mostrato ai diplomatici stranieri un video con i danni causati dai manifestanti, assicurando loro che l’«insolita situazione» si normalizzerà «a breve».

La situazione è però tutt’altro che normale. Il paese è al quarto giorno di blocco pressoché totale delle comunicazioni. Non dipende da noi, assicura il governo. Ma l’isolamento è un mezzo ideale per coprire abusi, arresti arbitrari e omicidi extragiudiziali, ricordano le organizzazioni per i diritti umani che hanno certificato, in questo come in molti casi precedenti, l’uso sproporzionato della forza. Nonostante la censura mediatica, cominciano a uscire le immagini dei giorni scorsi.

ALCUNE MOSTRANO i carri armati per le vie della capitale; molti i video di uomini in borghese che sparano ad altezza uomo. Il quadro è ancora parziale e frammentario, ma sarebbero almeno 163 le vittime accertate, per lo più studenti. Più di 500 gli arresti secondo quanto dichiarato all’agenzia France Press da Faruk Hossain, portavoce della polizia di Dacca.

Tra loro anche Amir Khosru Mahmud Chowdhury e Ruhul Kabir Rizvi Ahmed, esponenti di spicco del principale partito di opposizione, il Bangladesh Nationalist Party, e Mia Golam Parwar, segretario generale del più grande partito islamista, Jamaat-e-Islami. Segnale che le opposizioni hanno cercato di cavalcare la protesta, innescata in modo autonomo dagli studenti. Ma anche della più ampia partita politica in corso.

C’è una responsabilità politica da accertare, replicano infatti gli studenti a chi chiede loro di interrompere le proteste. Chiedono che vengano individuati e puniti i responsabili del massacro dei giorni scorsi, invocano le dimissioni del ministro degli interni, chiedono le scuse – se non le dimissioni – di Sheikh Hasina, il rilascio dei manifestanti arrestati, la riapertura delle università da domani e lo scioglimento della Chhatra League, la branca giovanile della Lega Awami, percepita da molti come una sorta di braccio armato studentesco. C’è anche chi chiede chiarezza sugli abusi subiti da chi, come Nahid Islam, uno dei giovani coordinatori del movimento, è stato sottoposto a torture fisiche e mentali in carcere.

LE STESSE RICHIESTE sono arrivate da molte piazze occidentali e asiatiche, riempite dai bangladesi della diaspora. A New York, a Londra, a Roma nel quartiere di Torpignattara e ieri a piazza Santi apostoli, sempre nella capitale.

Così è avvenuto negli Emirati arabi dove le proteste sono illegali e dove, secondo l’agenzia di stampa statale Wam, 54 cittadini del Bangladesh che manifestavano contro la repressione nel loro paese sono stati condannati a 10 anni di detenzione. Per tre di loro, accusati di aver «istigato disordini in diverse strade degli Emirati venerdì», la sentenza prevede l’ergastolo.