Murakami Takashi emerge sulla scena dell’arte contemporanea internazionale negli anni Novanta quando, dopo aver finito il suo dottorato sul Nihonga, uno stile di pittura codificato nell’arcipelago nel periodo Meiji, decide di far collidere questi studi con la sua passione per anime e manga.

A CAVALLO fra la fine del secolo scorso e gli inizi di questo, Murakami lancia di fatto un movimento e una teoria concettuale artistica, il superflat, attraverso la quale cerca di «appiattire» e mettere sullo stesso piano l’arte cosiddetta alta e quella più pop, un processo che il giapponese ha perseguito, attraverso varie permutazioni, durante tutta la sua carriera. Creando opere dove arte classica, cultura pop e prodotti per il consumo di massa si sovrappongono, non sempre con successo a dire il vero, Murakami è in questi decenni diventato il fulcro di discussioni sul ruolo dell’arte nella società dello spettacolo contemporanea, forse più all’estero che non in patria, dove la sua posizione nel panorama artistico resta problematica.

Una grande mostra dedicata all’artista giapponese è stata inaugurata lo scorso febbraio a Kyoto, al City Kyocera Museum of Art, l’evento è intitolato Takashi Murakami Mononoke Kyoto e durerà fino al primo settembre. Con più di 170 opere esposte, la maggior parte delle quali sono nuove creazioni o rielaborazioni di motivi o personaggi realizzati in passato, la mostra è la prima dell’artista ad essere organizzata in Giappone in otto anni e anche la prima di queste dimensioni fuori da Tokyo. L’evento non solo è un’occasione per ripensare la carriera dell’artista, ma anche per ridefinire il suo rapporto con l’arcipelago e la sua cultura di massa, con particolare attenzione verso la città di Kyoto, dove Murakami si è spostato con la famiglia da Tokyo nel 2011, decisione presa dopo il terremoto e lo tsunami dell’11 marzo dello stesso anno.

Il ciclo vita-morte e la condizione mortale dell’essere umano sono alcune delle tematiche che hanno innervato l’arte del giapponese fin dai suoi inizi e si ritrovano quindi anche in questa mostra, fin dal suo titolo. Mononoke è un termine che si riferisce infatti agli spiriti dei morti della tradizione folklorica dell’arcipelago, spiriti che spesso si impossessano degli esseri umani. Secondo Murakami, è stata la stessa città giapponese con i suoi paesaggi e le sue tradizioni locali ad ispirarlo per la mostra, in particolare il festival Daimonji, celebrazione annuale in cui sulle cinque montagne che circondano Kyoto vengono accesi degli enormi falò a forma di kanji, i caratteri cinesi usati nell’arcipelago.

QUESTO EVENTO segna la fine dell’Obon, il periodo di rispetto per gli antenati durante il quale questi ultimi ritornano a visitare il nostro mondo. Naturalmente la mitologia è filtrata dalla sensibilità dell’autore giapponese, troviamo ad esempio molti dei personaggi e delle opere create da Murakami in passato, come Kaikai e Kiki, o Mr. Dob, uno psichedelico florilegio di colori in forme che rimandano a personaggi di anime o manga, all’interno del quale però si intravede un senso di ansia, di rabbia e persino di disperazione. Alcuni lavori rielaborano, ripensano o citano delle pitture della tradizione nipponica del periodo Edo intersecando ed aggiungendo sprazzi di colore lisergico, altre, forse la parte più interessante di tutta la mostra, mettono su tela ex novo alcune mitologie di creazione e simboli delle pratiche religiose del continente asiatico, come Dragon in Clouds—Red Mutation, un enorme murale che lo stesso Murakami ha realizzato, o altri draghi o tartarughe raffigurati in enormi pannelli che coprono intere pareti in saloni calati nella quasi totale oscurità.

Il rapporto di Murakami con Kyoto e con il Giappone più in generale emerge anche da alcune dichiarazioni rilasciate in occasione dell’apertura dell’esposizione: secondo lo stesso artista, questa potrebbe essere infatti l’ultima mostra a lui dedicata nell’arcipelago, almeno fra quelle tenute durante la sua vita. Molti critici giapponesi gli hanno inoltre spesso rinfacciato il fatto che oramai non crei più, ma che lasci tutto alla sua factory, la Kaikai Kiki, che al momento impiega circa 150 persone. Fondata quasi trent’anni fa, ricorda di più una fabbrica di prodotti di design che non un laboratorio artistico di stampo tradizionale.

Una delle opere che più colpiscono l’occhio del visitatore è un’enorme scultura di tredici metri di altezza situata nel giardino del museo. Si tratta di Flower Parent and Child, due fiori dorati vagamente antropomorfi che stanno su un piedistallo formato da una valigetta gigante firmata Louis Vuitton. Quest’opera e il connubio con la famosa marca mettono in evidenza quello che forse è uno degli aspetti più deboli di tutta la produzione di Murakami. Nel corso degli ultimi due decenni, l’artista ha infatti intrapreso collaborazioni di estremo successo economico con marche prestigiose quali Louis Vuitton appunto o Hublot, ma anche con celebrità del mondo dello sport come Lionel Messi o musicisti come le Blackpink.

LA FILOSOFIA e le motivazioni che stanno dietro a queste scelte è una dichiarata ammirazione verso la competenza, la progettualità e la cura dei particolari che animano, secondo Murakami, queste aziende. Il giapponese non è certo il primo ad aver intrapreso collaborazioni per produrre oggetti di consumo firmati con le grandi marche dell’abbigliamento o del design, basti pensare alla sua connazionale Kusama Yayoi ad esempio. In questo modo però, sembra venir meno quella capacità di mettere in discussione dal di dentro la macchina commerciale-artistica, una qualità che caratterizza alcuni dei suoi primi lavori e l’approccio degli inizi. Al suo posto sembra essere subentrata una ricerca che invece si è spostata definitivamente verso la rappresentazione e la ricerca a tutti i costi di quel connubio pop-arte, ora virata verso prodotti di massa-arte, da cui era partito più di tre decenni fa. In questo senso, il suo percorso artistico sembra essersi fossilizzato, per usare un termine forse un po’ forte, o meglio, aver preso una strada, del tutto rispettabile naturalmente, che ha perso molta della sua originale verve pop-rivoluzionaria.