Il Wall Street Journal ha licenziato la sua corrispondente da Hong Kong, Selina Cheng, dopo la sua elezione a presidente di un sindacato per la libertà di stampa nella regione ad amministrazione speciale cinese. Durante la prima conferenza stampa alla guida della Hong Kong Journalist Association, Cheng ha affermato di aver ricevuto la notizia del licenziamento dopo essersi rifiutata di ritirare la candidatura al sindacato, che a detta della sua responsabile era «incompatibile con il lavoro» al giornale.

«SONO MOLTO delusa da questi editori stranieri che hanno finito per pensare che la libertà di stampa sia controversa, proprio come vorrebbero farci credere coloro che tentano di intimidire i reporter», ha dichiarato rivolgendosi ai giornalisti all’esterno di Central Plaza, dove ha sede l’ufficio del Wall Street Journal a Hong Kong. «In qualsiasi posto ci troviamo, la libertà di stampa non è un tema controverso, ma un diritto umano universale e fondamentale». Lo aveva scritto in un post su X, pubblicato in supporto al collega Evan Gershkovich, accusato di spionaggio e detenuto in Russia da marzo 2023, e poi condannato pochi giorni fa a 16 anni in una colonia russa di massima sicurezza.

La giornalista ha tacciato il Wsj di usare doppi standard, dimostrando cioè completo supporto a Gershkovich e alla sua famiglia, e riservando a lei un trattamento diverso. Si è detta «profondamente scioccata» che la testata ostacoli «attivamente i diritti umani dei dipendenti, impedendo loro di fare advocacy per quelle libertà che consentono ai suoi reporter di lavorare, in un luogo in cui i giornalisti e i loro diritti sono sotto minaccia».

UN TEMPO baluardo del giornalismo indipendente in Asia, dopo la promulgazione da parte di Pechino della Legge sulla sicurezza nazionale nel 2020, anche Hong Kong è diventata un luogo meno ospitale per fare informazione. Alcuni giornali, programmi televisivi, agenzie, hanno chiuso i battenti, per non rischiare di cadere nelle fattispecie di «sovversione» o «collusione con forze straniere» mentre svolgevano il proprio lavoro. All’indomani delle proteste pro-democrazia del 2014 e poi del 2019, il governo cinese ha progressivamente ristretto lo spazio delle libertà civili nella società hongkonghese, in nome di maggiore sicurezza e stabilità sociali.

Ora, «a causa della sua formulazione ambigua, la legge sembra potersi applicare a qualsiasi giornalista che si occupa di Hong Kong – afferma Reporters Without Borders – indipendentemente dal fatto che risieda o meno nel territorio». Cheng ha raccontato che molti dei suoi colleghi si sono trovati a dover rinunciare a posizioni in associazioni sindacali perché temevano qualche ritorsione da parte dei datori di lavoro o delle autorità.

DAVANTI al Central Plaza ha anche ricordato, però, che l’attività sindacale è tutelata dall’articolo 27 della Basic Law, il documento costituzionale hongkonghese, e così la libertà di stampa. «Il diritto dei reporter di lavorare senza paura deve essere protetto, non solo dalla legge – ha concluso – ma sopratutto da noi stessi: giornalisti, redattori, editori».