Due squadre di tre militari ciascuna marciano sul tappeto rosso, baionette in mano. Si salutano, poi alzano lo sguardo verso il placido sorriso di una grande statua in bronzo alta oltre sei metri. Quel sorriso è di Chiang Kai-shek, il generalissimo del Guomindang sconfitto da Mao Zedong nella guerra civile cinese. Quelle due squadre di militari, in una caldissima mattina di un lunedì di metà luglio, sono le ultime a rendere omaggio con la guardia d’onore alla statua di quello che in molti a Taiwan ricordano come un dittatore sanguinario.

Siamo al memoriale di Chiang, nel centro di Taipei, cuore pulsante delle tante contraddizioni dell’isola. Un luogo che è tutto e il suo contrario: omaggio all’ex presidente della Repubblica di Cina (che resta anche oggi il nome ufficiale di Taiwan) con un museo pieno di suoi cimeli, ma anche esposizione-denuncia dell’epoca del “terrore bianco”, durante la quale Chiang sradicò qualsiasi forma di opposizione con una legge marziale durata quasi 40 anni. Il tutto in una grande piazza che ha preso il nome di Liberty Square ed è diventata il simbolo di una altrettanto sfaccettata transizione democratica avviata dalle aperture del figlio del generalissimo, Chiang Ching-kuo.

LA DECISIONE di interrompere la tradizione della guardia d’onore, iniziata nel 1980, è stata presa dal governo del presidente Lai Ching-te, ritenuto un “secessionista” da Pechino. Il rituale è stato trasferito all’esterno dell’immenso edificio. Le guardie militari marceranno ora dai lati sud e nord della sala commemorativa, convergendo su Democracy Boulevard. Un tempo, Chiang era il nemico giurato del Partito comunista. Taiwan era da lui vissuta come un temporaneo purgatorio in attesa di riconquistare la Cina continentale con l’aiuto degli Stati uniti. Ora, però, per Xi Jinping l’unico interlocutore politico sull’isola è proprio il vecchio arcinemico del Guomindang, su posizioni ben più dialoganti con Pechino rispetto al Partito progressista democratico (Dpp), al governo dal 2016.

Già durante il doppio mandato della presidente Tsai Ing-wen, il Dpp ha cercato di recidere lo storico legame con Chiang. Nel 2018 è stata istituita una commissione di giustizia transitoria per indagare sulla persecuzione dei dissidenti politici e l’utilizzo improprio dei fondi statali. Tra le proposte della commissione c’era la rimozione di migliaia di statue di Chiang in tutta Taiwan, comprese quelle all’interno dei complessi militari.

EFFETTIVAMENTE, già dal 2000 col primo governo Dpp di Chen Shui-bian, diverse statue sono state rimosse. Circa duecento, per l’esattezza, raggruppate tutte nel parco di Cihu, qualche decina di chilometri a sud di Taipei. Un luogo surreale, dove statue di diverse fattezze e colore dell’ex presidente convivono con un parco giochi per bambini, a pochi passi dal mausoleo di famiglia. Ne restano ancora 760 su tutta l’isola e non è così raro imbattersene nei cortili delle scuole. Accade ancora più facilmente a Kinmen e Matsu, le isole minori amministrate da Taipei ma a poche chilometri di distanza dalle coste del Fujian. D’altronde, questi piccoli arcipelaghi non hanno vissuto la colonizzazione giapponese e non rileggono dunque l’avvento di Chiang in modo problematico come accade sull’isola principale di Taiwan, dove nel 1949 insieme al generalissimo arrivano quasi due milioni di persone su una popolazione totale inferiore ai cinque milioni. Il metodo di governo del generalissimo prevede l’esclusione dei locali da tutte le posizioni apicali della vita politica e pubblica, nonché l’esproprio di diverse aziende. È qui che si crea la rottura tra waishengren, i cinesi continentali arrivati a Taiwan dopo il 1945, e i benshengren, taiwanesi di etnia han presenti sull’isola da prima della fine della colonizzazione giapponese. Una divisione e una tensione intraetnica che hanno peraltro favorito lo sviluppo dell’alterità identitaria taiwanese.

DOPO L’INTERRUZIONE della guardia d’onore, il nuovo governo di Lai (entrato in carica il 20 maggio) pare intenzionato a riprendere il processo di rimozione delle statue. Ufficialmente per porre fine al “culto della personalità”, che per la verità appare piuttosto marginale anche tra le fila dei sostenitori del Guomindang. Forse più concretamente, si tratta invece di un altro passo di allontanamento dalle radici “continentali” e dunque dalla Cina, intesa come entità “allargata” al di là dell’istituzione politico-statuale, fino alla sua dimensione storico-culturale.

È QUELLO che il Guomindang e il Partito comunista chiamano tentativo di “desinizzazione”, che al momento non è destinato a passi definitivi come una dichiarazione di indipendenza formale ma semmai a una “taiwanesizzazione” dello status quo. In tal senso, Pechino e l’opposizione locale guardano con sospetto alla retorica di Lai, ben più audace rispetto a quella di Tsai. A metà giugno, per il centenario dell’accademia militare di Whampoa (fondata nei pressi di Guangzhou ma oggi di base a Kaohsiung, Taiwan), ha chiesto ai cadetti di “capire le sfide e la missione della nuova era”. Anche qui, il tentativo è di allontanare almeno in parte l’esercito dal retaggio dell’era nazionalista, che mantiene una forte presa simbolica sulle forze armate taiwanesi.

TAIWAN CONTINUA d’altronde a interrogarsi sul proprio passato. A fine 2023, l’Academia Historica di Taipei ha pubblicato per la prima volta i diari di Chiang, dopo aver vinto una lunga battaglia legale con l’università di Stanford che li ha conservati per quasi 20 anni. Sette volumi di annotazioni scritte tra il 1948 e il 1954, epoca ancora lontana dalla morte di Chiang, avvenuta nel 1975 poco più di un anno prima rispetto a quella di Mao. Da allora è cambiato tanto, tantissimo. Ma non tutto. Scendendo nella fermata della metropolitana a pochi passi da Liberty Square e da quella statua senza piu onore, spunta il volto dell’attuale sindaco di Taipei. Si chiama Chiang Wan-an. È il pronipote del generalissimo, che sogna di diventare un giorno presidente.