Nato in una famiglia di contadini sotto la colonizzazione francese e la dominazione giapponese. Cresciuto durante la guerra contro gli Stati uniti. Studente di scienze storiche in Unione sovietica. Redattore della rivista teorica del Partito, poi suo ideologo e infine leader indiscusso. Nguyen Phu Trong, segretario generale del Partito comunista vietnamita di cui è stata annunciata ieri la morte, non era una figura come un’altra. Né per il Vietnam, né per l’Asia. E, sempre di più, non lo era nemmeno per il mondo. Negli ultimi dieci mesi, sono apparsi al suo fianco in serie Joe Biden, Xi Jinping e Vladimir Putin. Nessun altro leader mondiale può dire lo stesso. Il tutto mentre i vari Amazon, Apple, Samsung, BYD fanno a gara per guadagnare spazio in quello che sta diventando un hub produttivo di alta qualità, snodo cruciale della globalizzazione in mezzo alle turbolenze della contesa tra Usa e Cina.

Trong ha guidato il Vietnam tra le intemperie, cavalcando le onde invece di subirle. Mentre all’interno operava la spietata campagna anticorruzione della “fornace ardente”, all’esterno esaltava la diplomazia del bambù. L’inflessibilità interna, utile anche o soprattutto a sbarazzarsi dei rivali politici, si accompagnava dunque a una grande flessibilità sulla scena internazionale. Da convinto marxista-leninista, Trong ha coltivato il legame storico-ideologico con Pechino, preservando quello di sicurezza con la Russia. E avviando uno storico disgelo con Washington col suo storico viaggio alla Casa bianca nel 2015, il primo per un leader vietnamita. Una mossa utile a diversificare i rapporti internazionali e aggiungere un’ulteriore tutela di stabilità per un paese con una storia frastagliata e violenta. Quasi mille anni di dominio cinese prima, gli effetti “caldi” della guerra fredda con le bombe americane poi.

Sulla salute di Trong, 80 anni, giravano voci pessimistiche già da tempo. Già qualche anno fa si era parlato di un “infarto”. Negli scorsi mesi aveva mancato almeno due appuntamenti rilevanti: l’incontro col presidente indonesiano Joko Widodo, in viaggio a Hanoi, e le celebrazioni del 70esimo anniversario della vittoria della guerra contro la Francia. Era poi riapparso un mese fa per accogliere Putin. Ma le immagini di fianco al leader russo lo mostravano in condizioni poco rassicuranti, tanto da non essere circolate sui media statali. Nei giorni scorsi, c’era stato il passaggio dei poteri al presidente To Lam, figura che nel sistema vietnamita ha funzioni soprattutto cerimoniali. Il segnale della gravità della malattia è arrivato con l’assegnazione dell’Ordine della stella d’oro, generalmente conferita postuma. Ieri, l’annuncio ufficiale.

La sua salute era stata messa in discussione sin dal 2021, quando al XII Congresso del Partito aveva ottenuto un inedito terzo mandato, un anno in anticipo rispetto al “collega” cinese Xi Jinping. La storia recente di Hanoi e Pechino, così come le esperienze di Trong e Xi, hanno d’altronde spesso viaggiato in parallelo. Mentre Deng Xiaoping lanciava la riforma e apertura cinese, Le Duan in Vietnam approntava il Doi Moi per aprire al mercato l’economia socialista vietnamita. Trong è diventato segretario generale nel 2011, un anno prima di Xi. Sempre come il presidente cinese, Trong ha costruito la sua reputazione su una ostentata inflessibilità in materia di sicurezza e incorruttibilità, medaglia che ha utilizzato per sconfiggere il rivale Nguyen Tan Dung al Congresso del 2016. Una vittoria dell’ideologia sul mercato, si era detto allora. Ma Hanoi ha poi firmato gli accordi di libero scambio con Unione europea e Regno unito, promuovendo il Rcep in Asia-Pacifico. Le pressioni su Washington per ottenere il riconoscimento di economia di mercato sembrano vicine a produrre il risultato sperato, con Hanoi che si è resa ormai indispensabile alla diversificazione delle catene di approvvigionamento globali e ha elevato nettamente i suoi standard produttivi.

E poco importa se dietro le quinte lo scontro politico è proseguito anche dopo l’avvio del terzo mandato di Trong. Nel giro di un anno, il segretario generale si è sbarazzato di due presidenti. Prima Nguyen Xuan Phuc, che ambiva a prendere il suo posto, poi Vo Van Thuong, considerato il suo delfino. In totale, otto membri del Politburo sono stati espulsi nel giro di pochi anni. Ora il rischio è che si possa aprire una fase di instabilità per la presa del potere. I continui scandali e frequenti arresti dimostrano che la situazione all’interno del Partito non è ancora pacificata. Ci si aspetta la convocazione di un comitato centrale per nominare un segretario generale ad interim. In corsa, oltre al presidente To Lam, anche il primo ministro Pham Minh Chinh, primo ministro ed ex generale di polizia proveniente dal potente ministero di pubblica sicurezza.

La nomina sarà in ogni caso valida “solo” fino al XIV Congresso del gennaio 2026, quando ci sarà la resa dei conti. Hanoi è dunque attesa da circa 18 mesi di potenziale instabilità e di incognite. Proprio mentre la partita sul mar Cinese meridionale si fa più dura. Due giorni fa, la Cina si è opposta “fermamente” alla presentazione alle Nazioni unite sui limiti della piattaforma continentale da parte del Vietnam, voglioso di vedersi riconosciuta un’estensione della sovranità in un’area contesa. A Pechino, come a Washington e Mosca, osserveranno con attenzione la soluzione del rebus della successione di Trong. Il bambù vietnamita vedrà messa a dura prova la sua flessibilità. E la sua forza.