In un villaggio rurale, stretto tra le montagne dello Shinshū, antica provincia giapponese che corrisponde all’attuale Nagano, chi raggiunge i settant’anni è destinato – nel rispetto di un’usanza ancestrale – a compiere un pellegrinaggio a Narayama. Il cammino porterà quelle persone sulla vetta di un monte dove un dio le attende, insieme alla morte. Solo così la comunità, le cui risorse sono limitate, potrà restare in equilibrio e gli anziani non diventeranno un peso.

Nelle Ballate di Narayama, pubblicato in Giappone nel 1956 e ora uscito a cura di Giorgio Amitrano, che firma la prima traduzione dal giapponese (Adelphi, pp. 115, € 12,00), lo scrittore Fukazawa Shichiroh mette in scena un mondo immaginario e remoto, evocando la leggenda di Obasute («l’abbandono della vecchia»).

Nel «villaggio dall’altro lato» le giornate sono scandite dallo spettro della fame – il riso è poco, le trote sono difficili da pescare e la terra coltivabile è scarsa – ma anche dalle ballate: gli abitanti usano il canto per condividere avvenimenti, sapere, tradizioni. Ci sono ballate per criticare lo sperpero, per incoraggiare a sposarsi tardi, per ammonire i figli disubbidienti, per scoraggiare i pigri, per schernire, per badare a un bambino. E per accompagnare nell’ultimo viaggio verso Narayama.

In questo scenario, Orin – una vedova di sessantanove anni che vive insieme al figlio Tatsuhei, anche lui vedovo, e ai nipoti – si avvicina alla soglia del destino che la attende; ma il pensiero non la turba, anzi desidera prepararsi all’ascesa, organizzare al meglio il suo commiato dalla comunità. È in buona parte suo il punto di vista della narrazione: Orin è dotata di una generosità antica, tenera e toccante, è una madre che sa di doversi sacrificare e lo fa con il cuore lieve. Affronterà il cammino sulle spalle del figlio, che raggiunta la cima del monte la abbandonerà dove i corvi volteggiano sulle ossa candide. Anche il canto e il silenzio condividono il protagonismo di questo libro, toccando corde a loro volta generatrici di  pensieri necessari, che riguardano la dignità della vita e della morte. Se delle regole del pellegrinaggio fa parte la proibizione di parlare, al silenzio si contrappongono le ballate, in una mescolanza di oralità e scrittura che la traduzione di Giorgio Amitrano (autore anche di una interessante postfazione) restituisce magistralmente, rendendo con fedeltà lo stile di Fukazawa Shichiroh, perfettamente sotto controllo, in questo testo che è un felice punto di incontro tra romanzo e racconto.

Quando uscì in Giappone, Le ballate di Narayama guadagnò un notevole successo di critica, nonostante l’autore fosse al suo esordio e non facesse parte della società letteraria giapponese. Descriveva, del resto, una questione la cui attualità è resa anche da un altro romanzo, Dendera, di Sato Yuya (Rizzoli) dove le donne, abbandonate sulla montagna e destinate a morire, lungi dal lasciarsi sopraffare dal destino che le attende, si coalizzano in una comunità segreta grazie alla quale – tra solidarietà e divisioni – riescono a sostentarsi senza bisogno di altri. Diversamente da quelle figure femminili, Orin non prova rancori, né desideri di vendetta: solo, si autorizza a sperare che il giorno della sua ascesa al Narayama nevichi, perché «se il giorno del viaggio sul cadeva la neve, chi lo intraprendeva poteva dirsi fortunato».