«Sarò franco: all’inizio di questo processo ho pensato seriamente di rinunciarci, alla mia ultima dichiarazione. Quante volte può essere l’ultima, eh? Poi ho deciso di farla comunque, e questo perché “l’ultima dichiarazione” è davvero una cosa fuori dell’ordinario (…), l’opportunità di tirare fuori tutto sapendo che ci sarà più gente a sentire quello che dici».

A leggerle ora, le parole che Aleksej Navalny aveva affidato al suo ultimo intervento davanti ad un tribunale che l’avrebbe condannato ad una lunga pena, suonano quasi come un testamento. I

l politico russo, oppositore irriducibile del regime di Vladimir Putin, morto in carcere solo pochi giorni fa a 47 anni in circostanze che le autorità di Mosca non hanno ancora chiarito, intendeva utilizzare anche quell’occasione, tra le ultime che gli sarebbero state offerte, per far sentire la sua voce dentro e fuori i confini della Russia.

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Lo stesso scopo cui dedica la propria attività l’associazione Memorial che, nata negli anni del dissenso verso il passato di repressione dell’Urss, si è trasformata in uno strumento di denuncia del regime putiniano. Il testo di Navalny è stato così incluso, insieme a quelli redatti da un’altra ventina di imputati politici, nel volume Proteggi le mie parole, pubblicato da e/o nel 2022 in collaborazione con Memorial, con la cura editoriale di Sergej Bondarenko e Giulia De Florio e la prefazione di Marcello Flores.

Sergej Bondarenko

Classe 1985, tra gli storici di Memorial, attivo sulla ricerca dei crimini staliniani e la formazione, Bondarenko è stato costretto a rifugiarsi a Berlino per sfuggire alla repressione.

E dalla capitale tedesca ha risposto alle domande del manifesto.

È terribile doverlo affermare, ma si ha l’impressione che quella di Aleksej Navalny sia stata in qualche modo una morte annunciata: quale effetto potrà avere, se ne avrà uno, all’interno della Russia?

Penso che in questo caso sia entrato in azione lo stesso meccanismo cui si è assistito dopo l’invasione dell’Ucraina due anni or sono: fino a quel momento era impossibile immaginare che sarebbe realmente accaduto, ma non appena è avvenuto, si è avuta la sensazione immediata che non sarebbe potuto andare altrimenti.

L’effetto è purtroppo scontato: la repressione si è intensificherà e procederà ancora più velocemente. Molte più persone moriranno e soffriranno. Allo stesso tempo, è probabile che anche la protesta diverrà più radicale. Quello che è successo a Navalny evidenzia come non ci sia più un futuro alternativo per tutti noi: dovremo affrontare Putin fino alla fine. Ed è perciò che dobbiamo rendere prossima la sua fine con ogni mezzo possibile.

Lei ha curato il volume «Proteggi le mie parole» (e/o) che ospita anche «l’ultima dichiarazione» pronunciata da Navalny il 15 marzo del 2022 – mentre si trovava già in carcere -, prima della sua condanna. Come descriverebbe questo tipo di processi che sembrano rimandare a quelli che si celebravano nell’Urss contro i dissidenti, non solo all’epoca di Stalin?

Purtroppo, il paragone tra i tribunali politici di oggi e i tribunali che processavano i dissidenti in Unione sovietica, non è più soltanto una metafora. Si tratta di processi del tutto illegali, dove l’unica forma di protesta consentita è l’ultima presa di parola concessa all’imputato e, nella migliore delle ipotesi, il lavoro che cercano di svolgere a fatica gli avvocati difensori. Il tutto, a dimostrazione di quanto il processo stesso violi la legge e la Costituzione russe.

Solo negli ultimi due anni, dall’inizio della guerra, in Russia sono state condannate in questo modo centinaia di persone. Ad esempio, uno degli attivisti di Memorial, Oleg Orlov, è sotto processo in questo momento. Nell’ultima udienza si è rifiutato di testimoniare per protestare contro il modo in cui si svolge il procedimento, così si è seduto e ha cominciato a leggere delle pagine dal Processo di Franz Kafka.

Memorial è nata nel 1989 su iniziativa di Andrej Sacharov, una figura nota in tutto il mondo per la propria battaglia per la libertà. Crede che oggi fuori dalla Russia si guardi agli oppositori di Putin come si guardava ai dissidenti ai tempi dell’Urss? O nei confronti di Putin c’è un atteggiamento di condanna meno netto?

Naturalmente, la differenza principale è che negli anni precedenti all’ascesa al potere di Putin, e almeno per il primo decennio del suo governo, c’è stata nel Paese un’opposizione legale attiva in varie forme: qualcosa che non era mai esistito in Unione sovietica fino alla fine della perestrojka. In questo senso, gli oppositori di Putin non sono propriamente dei dissidenti, bensì rappresentano gran parte della società russa e molti schieramenti politici diversi: ci sono figure di sinistra, di destra, che guardano all’Occidente, come attivisti e politici anti-occidentali. Ciò era assolutamente impossibile in Urss, sia a causa del sistema stesso, sia a causa della diversa situazione dell’informazione e della tecnologia attraverso cui accedere alle notizie e comunicare all’esterno. L’unico elemento importante che sembra coincidere nei due contesti, credo riguardi la crescente necessità di utilizzare delle tattiche «dissidenti»: dall’emigrazione forzata agli scioperi della fame in carcere, dalla pubblicazione delle ultime parole in tribunale all’attivismo clandestino e a varie forme di solidarietà verso coloro che non possono essere aiutati e sostenuti in nessun altro modo.

Il prossimo 24 febbraio saranno due anni dall’inizio dell’invasione dell’Ucraina da parte delle truppe russe. Come è cambiata nel frattempo la situazione nel Paese? Si ha l’impressione che quello «interno» rappresenti il secondo fronte della guerra che sta conducendo Putin…

Sono stato costretto a lasciare la Russia alla volta di Berlino per poter continuare il mio impegno a favore di Memorial. Quindi non sono davvero nella posizione di raccontare quanto sta accadendo a Mosca, perché la maggior parte di questo tempo l’ho dovuta trascorre lontano dal mio Paese.

Anche dal mio osservatorio appare però evidente come si sia assistito ad una progressiva «normalizzazione» della guerra all’interno della Russia. Ciononostante c’è stata una mobilitazione visibile, soprattutto all’inizio della guerra.

Ora siamo ad una nuova fase: Navalny è morto e vediamo la risposta a tutto ciò. Le nuove elezioni «di Putin» sono solo tra tre settimane, e anche questo rappresenta una sfida. Ma per quanto posso vedere, purtroppo la situazione è ancora sotto controllo da parte del potere.

Quanto sta cambiando in profondità la società russa questa condizione di guerra permanente che sembra dominare l’orizzonte da più di vent’anni: dalla Cecenia all’Ucraina?

Credo che la prima difficoltà sia rappresentata dal fatto che all’interno del Paese questo sentimento di «guerra permanente» non è percepito fino in fondo. La seconda guerra cecena, avvenuta già con Putin al potere, si è conclusa in un’epoca in cui i media indipendenti erano sotto il rigido controllo statale, quindi per gran parte della società non si trattava più di una guerra, ma di una «lotta ai terroristi» che aveva luogo in Cecenia e che in seguito è stata affidata «con successo» alle autorità locali. Quanto alla guerra in Georgia è durata solo pochi giorni. E l’invasione dell’Ucraina nel 2014 è stata camuffata con successo da altro, anche se tutti coloro che volevano vedere e capire cosa stava realmente accadendo lo hanno sicuramente fatto.

Perciò, per molti, la «vera guerra» è arrivata solo il 24 febbraio 2022. E ancora oggi, in particolare gli abitanti delle grandi città ne sentono solo indirettamente gli effetti – in economia come sul piano culturale -, ma non stanno combattendo né perdono i loro cari al fronte.

La mia impressione è che «la grande guerra» non sia ancora arrivata in Russia. E questa è una delle cose su cui il potere lavora costantemente: controllare la diffusione delle notizie e del modo in cui questa vicenda impatta sulla realtà interna del Paese.

Anche per questo, negli ultimi due anni, quando è sembrato apparire qualche segnale di cambiamento in settori della popolazione, si sono applicate le leggi e i principi del «tempo di guerra» per ricondurre tutto sotto controllo.

Lei è uno degli storici dell’associazione Memorial, messa al bando da Putin. Perché un’ organizzazione che è nata per ricordare l’orrore dei gulag e della repressione dei dissidenti in Urss è diventata scomoda proprio oggi?

Penso che la risposta la possiamo trarre da quanto sta accadendo negli ultimi giorni. Quando si è saputo che Navalny era morto, in molte parti della Russia le persone si sono raccolte intorno ai monumenti alle vittime della repressione politica staliniana.

Questi monumenti sono l’incarnazione fisica di ciò che Memorial ha rappresentato fin dalla sua fondazione: una sorta di promessa fatta dallo Stato alla società russa, un’ammissione di colpevolezza per il terrorismo di Stato e una promessa che tutto ciò non si sarebbe ripetuto mai più.

Ora in Russia ci si sta rendendo conto che la promessa non è mai stata mantenuta, e quindi un’organizzazione come Memorial è ancora molto importante per il Paese, ad iniziare, ma non solo, dal piano simbolico.

Lei non ha ancora quarant’anni ed è costretto a vivere lontano dal suo Paese a causa delle sue idee. Come guarda al futuro della Russia?

È difficile farsi troppe illusioni sulla realtà odierna della Russia. Ma posso dire di essere cresciuto in un ambiente diverso. Sono abbastanza grande da ricordare la stampa libera, le proteste politiche, i dibattiti pubblici, i libri pubblicati liberamente, internet che funziona senza alcuna limitazione.

Quindi, in un certo senso, possiedo sia questi ricordi che la consapevolezza che le cose potrebbero davvero essere diverse. Vedrò di nuovo qualcosa del genere nel mio Paese nel corso della mia vita? Ancora una volta, non lo so.