«La decrescita è il nuovo nome della pace. In un contesto di lotta per le risorse e distruzione dell’ambiente, solo questa prospettiva può consentire rapporti pacifici». Marco Deriu, sociologo dell’Università di Parma e membro dell’Associazione per la decrescita, è autore di Rigenerazione. Per una democrazia capace di futuro (Castelvecchi, pp 310, 25 €), una riflessione sulla relazione tra la crisi ecologica e la crisi della democrazia.

La democrazia che conosciamo ha le carte in regola per farci uscire dalla crisi climatica e ambientale?

La mia prospettiva parte dall’idea che la democrazia, così come l’abbiamo concepita fino a oggi, è de-naturalizzata, perché non si è mai interrogata fino in fondo sulle radici ecologiche della società, su quanto le comunità politiche e le forme del vivere dipendono da elementi ambientali. La democrazia si è fondata sulla massimizzazione del consumo delle risorse. Questo spiega alcuni limiti della situazione in cui ci troviamo. Dal mio punto di vista, la democrazia non è immune da responsabilità per ragioni storico-politiche. Il benessere delle nostre democrazie è basato su un tipo di organizzazione socio-economico che dipende da un afflusso di beni che provengono da tutto il mondo e da un accesso a energia a buon mercato che pensiamo di dare per scontato, ma che tale non è.

È quella che lei definisce una democrazia fossile…

Nel libro uso questa immagine per dire una doppia cosa: c’è sia una radice materiale, ovvero una connessione tra l’evoluzione dei regimi di diritti e libertà politiche liberali e l’uso e il controllo prima del carbone e poi del petrolio. Ma fossile è anche un modello di democrazia che non si è mai posta il tema della responsabilità verso le generazioni future, né dal punto di vista ecologico né da quello economico – pensiamo alla questione del lavoro o del debito – e che di fatto riduce le prerogative democratiche per chi viene dopo.

La crisi climatica mette in discussione l’idea di libertà assoluta sulla quale si fondano le democrazie. Come dovrà cambiare la concezione di libertà in una democrazia ecologica?

Nella tradizione democratica c’è una riflessione sul tema dei limiti, degli equilibri, della distribuzione del potere. Però nella nostra cultura democratica l’idea di libertà è stata in gran parte pensata come un modello di libertà individualistica, come essere sciolti da vincoli, poter fare, produrre, consumare, comprare quello che vogliamo, secondo una cultura consumistica e un modello di accumulazione di crescita illimitato. Un’idea di libertà che consuma non solo la natura e i beni comuni, ma consuma la democrazia stessa. Per me diventa fondamentale riscoprire un’idea di libertà in relazione. Relazione con il territorio, l’ambiente, tra generi, tra generazioni, tra forme viventi differenti.

Il senso del limite non è appannaggio della democrazia. Perché è necessario inglobarlo?

La massimizzazione delle possibilità per ciascuno non coincide con il fare quello che ci pare. Se tutti consumano e sfruttano l’ambiente e i beni sociali senza preoccuparsi delle condizioni di accesso degli altri, quello che succede è che distruggiamo i beni e trasformiamo la natura dei beni con cui ci relazioniamo. Costruire una forma di benessere o prosperità che sia davvero democratica significa trovare delle risposte collettive e un senso della misura che non è un’aggregazione dei desideri individuali, ma è una costruzione collettiva. La ricerca dei limiti è la chiave per una democrazia capace di futuro. Certo, il solo riconoscimento dei limiti ecologici di per sé non è detto che produca un sano senso di responsabilità, potrebbe anche rafforzare la competitività per l’accaparramento delle risorse scarse da parte di élite geografiche o di classe. Per questo abbiamo bisogno anche della giustizia sociale e di democratizzare le nostre forme di consumo.

Da dove ripartire per una trasformazione e rigenerazione della pratica democratica?

Sono diversi sentieri che si possono percorrere. Intanto bisogna riconoscerne i lati oscuri, come la cosiddetta «miopia delle democrazie», un tema ben presente nel dibattito politologico attuale: per come sono strutturate le democrazie, il confronto si costruisce su prospettive di brevissimo periodo, mentre fanno fatica ad entrare in gioco decisioni che riguardano, per esempio, le generazioni future. Come provare a trasformare? Secondo me occorre introdurre una sorta di sperimentalismo democratico, che può essere applicato anche in campo ecologico. Un tema cruciale è quello delle forme di partecipazione e quindi delle garanzie procedurali che vengono riconosciute ai cittadini quando si tratta di operare delle scelte che impattano sui territori, come le grandi opere. Uno spazio interessante di sperimentazione è quello dei beni comuni che possono essere gestiti da comunità di persone che si rendono responsabili della loro tutela. Le tematiche ecologiche hanno poi fatto emergere la necessità di coinvolgere sempre più i giovani nei processi decisionali in una società che fino ad ora si è data l’anzianità come criterio di garanzia. Inoltre, io credo che un ruolo interessante possa essere svolto dalle città, o reti di città, come luoghi che contemperano la doppia esigenza di riavvicinare le persone alla democrazia e nello stesso tempo affrontare decisioni che, obiettivamente, non possono essere prese a livello locale come quelle sui servizi o sul welfare. Nell’affrontare il cambiamento climatico non c’è solo il confronto tra stati, che abbiamo visto essere lento e non scevro di conflittualità, ma occorre mettere in campo più soluzioni e più processi. Non esiste una «soluzione verde» chiavi in mano, nessuna di queste strade, da sola, può tirarcifuori dai guai: dobbiamo capire che la questione climatica è una lente che ci deve spingere a ripensare in tutti i suoi aspetti le nostre istituzioni democratiche.

Alla prospettiva della decrescita, lei scrive, manca ancora una visione politica. A che punto siamo?

Io credo sia interessante ragionare sull’idea del decrescere, più che sulla decrescita come stato delle cose. Quindi su un modello di transizione capace di assumere il tema della discontinuità. Qui sta la grossa questione dal punto di vista della democrazia: la scienza ci dice che per costruire forme di sostenibilità dobbiamo modificare le forme di consumo, di produzione, di alimentazione, e tanti aspetti che hanno a che fare con le nostre abitudini quotidiane. Come è possibile fare questo in una logica consensuale e democratica? È possibile se la politica ci accompagna nell’assunzione di scelte collettive. Per questo c’è enorme bisogno di investire nelle pratiche democratiche, perché l’alternativa è quella di aspettare che qualcuno ci tolga dai guai in maniera autoritaria. La riflessione sulla democrazia e sulla decrescita sono strettamente imparentate.

Nel suo libro lei sottolinea l’apporto dell’eco-femminismo a questa riflessione. Perché è importante?

È importanti su tanti livelli. Da quel filone di pensiero e di pratiche emerge la consapevolezza dello squilibrio tra le forme di produzione e il disconoscimento delle forme di riproduzione in senso lato. Se vogliamo, l’ossessione per la crescita e certe forme di politica competitiva derivano dal fatto che molte esigenze legate alla cura e alla riproduzione, la gestione dei legami sociali e comunitari, sono state estromesse dallo spazio pubblico e considerate parte di un regno privato di necessità concrete lasciate alle singole persone e delegate essenzialmente al lavoro delle donne o degli invisibili, lavoratori che non accedono al riconoscimento pubblico. Sono riflessioni fondamentali non solo per i rapporti tra generi e generazioni, ma anche per immaginare una politica diversa.