Kirill Serebrennikov a Cannes non c’è, accanto al nome annunciato sul foglietto della conferenza stampa si specifica: sedia vuota. In concorso però è stato presentato (e molto applaudito) il suo film, Leto, e l’equipe salendo le «Marches» ha alzato sul tappeto rosso lo striscione col suo nome. Thierry Frémaux ha detto che il festival ha cercato in ogni modo di far arrivare il regista russo detenuto agli arresti domiciliati per un’accusa di presunta frode che a molti appare come un attacco contro l’artista già altre volte preso di mira da censori e politici. Putin però, a cui si sono rivolti gli organizzatori di Cannes, ha risposto che a lui sarebbe «piaciuto moltissimo aiutare il festival ma la giustizia qui (in Russia, ndr) è indipendente». Serebrennikov è stato arrestato proprio durante le riprese di Leto, che ha finito al computer in casa, subendo la stessa sorte «censoria» dei personaggi del film, solo che lì erano gli anni della grisaglia brezneviana, qui siamo nel nuovo millennio neocapitalista del post-Perestrojka. Eppure…

Leto, (L’estate) in un bianco e nero graffiato a effetto home-movie dal colore, ci riporta a Leningrado (non ancora tornata San Pietroburgo) negli ’80, quando i cambiamenti sembrano impossibili – ma il Muro di Berlino verrà abbattuto non molto tempo più tardi – nonostante come in altri Paesi del socialismo reale un sentimento punk-rock attraversi i desideri delle generazioni più giovani. A Leningrado la scena musicale underground sfida i divieti, ma i gruppi trovano spazio solo in club quasi clandestini, il Leningrado Rock Club soprattutto.

E anche lì funzionari dell’ordine e censori controllano i testi esigono spiegazioni, alzano il sopracciglio nauseati dalle parole che rivendicano un altro mondo un’altra vita mentre al pubblico è vietato alzarsi e battere i piedi per terra. I musicisti inventano, glissano, alludono, immaginano in testa hanno il rock e il punk, i Sex Pistols, e la new wave, Blondie e Bowie, fuori «addomesticano» le loro chitarre con l’arte dei grandi rivoluzionari contro il «no future» di repressione e controllo. Il leader indiscusso è Mike, lo adorano, è un riferimento, la sua band si chiama Zoopark, quando suona le ragazze impazziscono, è il leader per tutti gli altri, anche per chi fa musica diversa, a lui piacciono Dylan e Lou Reed, è carismatico, generoso, gli perdonano pure di non essere abbastanza «graffiante» con le sue canzoni, forse perché nella vita non soffre abbastanza… Con lui c’è Natalia, la sua compagna, bella, ironica, insieme «giocano» a fare le star.

L’amore è trovare un disco raro al mercato nero o un caffé di veri chicchi. La casa è una stanza dove si fuma e si suona, i vicini ascoltano e sono complici, si occupano del loro bambino. « In occidente hanno Mike, noi abbiamo Mika» dicono gli amici mentre li filmano come Jagger e gli Stones. La libertà è il mare, una fetta di cocomero, il vino, farsi il bagno nudi, una canzone suonata piano. L’estate con le sue promesse che come le canzoni possono cambiare il mondo.

Un giorno arrivano due ragazzini, uno si chiama Viktor, è un poeta, odia i compromessi, è o tutto o niente. Diventano amici, amano la stessa donna, lei chiede il permesso al suo uomo per baciare Viktor perché «noi non vogliamo avere segreti». Viktor è Viktor Tsoi (l’attore Teo Yoo), figlio di un ingegnere coreano e leggenda della controcultura nell’era sovietica coi suoi Kino – perché un gruppo deve avere un nome corto – morto a ventotto anni schiantandosi con l’auto in Lettonia nell’estate del 1990. Mike è Mike Naumenko (nel film la rock star Roman Bylik cantante degli Zveri che hanno curato tutti gli arrangiamenti) ucciso da un colpo in testa nel 1991 da alcuni rapinatori. Tutti e due non hanno saputo come sarebbe andata a finire quella Perestrojka che Mike già odiava, e che forse come è accaduto a tanti altri li avrebbe inghiottiti nel nulla.

Parla di loro il film di Serebrennikov, anche se il biopic al regista interessa fino a un certo punto, cosa che gli permette una leggerezza emozionale e soprattutto di sfuggire al cliché della rockstar su schermo, cercando una corrispondenza intima tra la sua narrazione e quella delle canzoni, tra le vite e la loro invenzione. Il suo è un racconto crudele della giovinezza, dei sogni che evaporano nei cambiamenti, degli amori che finiscono, delle certezze. Cosa vuol dire avere vent’anni quando intorno cercano di sfinirti in ogni modo, quella rabbia giovane e «new wave» che ovunque in quel momento dell’esistenza è necessaria. C’è una canzone di Tsoi dal titolo L’estate che sta per finire, come è finita la loro estate spensierata a dispetto di tutto, poliziotti, benpensanti, mercato nero. Ma Serebrennikov si ferma prima, quando le cose possono ancora accadere. «Il nostro amore è da ragazzini, camminiamo mano nella mano»dice Natalia a Mike parlando di Viktor. Non è successo nulla, non succederà nulla, ma in quello spazio prima di ogni cosa, anche di un bacio innocente, c’è questa estate in cui tutto comincia, il disordine, le scoperte, il sentimento della possibilità.