Benché regolarmente registrato all’anagrafe, Saramago non è che il soprannome con cui la gente di Azinhaga, un piccolo villaggio situato nella provincia del Ribatejo, si rivolgeva allo scrittore portoghese, nato poco meno di cent’anni fa, il 16 novembre del 1922. Riandare a quella atmosfera di remota e dignitosa povertà sarà più facile sfogliando il volume fotografico che Feltrinelli farà uscire più o meno fra un mese, I suoi nomi (a cura di Alejandro García Schnetzer e Ricardo Viel, edizione italiana curata da Roberto Francavilla), dove immagini del mondo fisico e mentale di José Saramago sono inframezzate da lunghe citazioni tratte dai suoi libri, a evidenziare gli eventuali intrecci fra suggestioni biografiche e loro traduzione in situazioni romanzesche.

Esordio del 1947
Era il 1947 quando uscì il primo libro dello scrittore portoghese, ora pubblicato da Feltrinelli con il titolo che il giovane esordiente aveva stabilito, La vedova (traduzione di Rita Desti, pp. 320 € 19,00) ma cui dovette rinunciare, dietro le pressioni dell’editore Manuel Rodrigues, che più romanticamente lo titolò Terra del peccato. Fu a causa di questa piccola frustrazione, e del fatto che comunque quell’esordio non lo convinceva affatto, che Saramago espulse il romanzo dalla sua bibliografia. Anche del secondo tentativo, Lucernario, firmato con lo pseudonimo di Honorato e riesumato dalla vedova Pilar del Río quando l’autore non poteva più opporsi (Feltrinelli 2012) Saramago era insoddisfatto, cosa che lo indusse per molto tempo a non misurarsi oltre l’estensione di un articolo di giornale. Sarebbero passati poco meno di vent’anni prima che trovasse quella magistrale qualità della voce che lo avrebbe reso uno dei più grandi scrittori del secondo Novecento.

A farla suonare, questa voce, sono anzitutto i dialoghi, che una volta intrapresa la stesura di Una terra chiamata Alentejo, lo scrittore portoghese decise di inframezzare alla narrazione abolendo le virgolette e qualsiasi altra forma di stacco: era un escamotage di cui si servì per restituire l’oralità delle testimonianze che aveva raccolto per la sua epopea contadina nei tre anni, dal ’76 al ’79, passati nel poverissimo sud rurale del Portogallo; ma avrebbe poi esteso quella strategia ai suoi romanzi a venire, determinandone lo speciale ritmo narrativo.

Molti e avventurosi anni sarebbero trascorsi dall’esordio di Saramago alla conquista di una qualche notorietà, che gli venne – molto prima della vincita del Nobel – dallo scandalo sollevato dal suo Vangelo secondo Gesù Cristo, in seguito al quale decise di ritirarsi nell’isola di Lanzarote. Dell’indole dissacrante del giovane Saramago non c’è traccia nelle pagine della Vedova, che anzi esibisce personaggi devoti, quasi bigotti e soprattutto ossessionati dalla paura del peccato.

L’incipit è intorno al capezzale del moribondo Manuel Ribeiro, giovane e molto amato signore di una florida tenuta, strappata al selvaticume di un terreno ingrato, cui i contadini devono la loro relativa prosperità. Legata alla casa e ai suoi abitanti come a beni personali, una domestica di nome Benedita finirà per divenire l’ago della bilancia nelle vicende del romanzo e prima di tutto nella vita della affranta vedova di Ribeiro, Maria Leonor. Personaggio interessante di una trama elementare, questa giovane donna sembra tornata, dopo la morte del marito, a una vita assillata da fantasmi persecutori, che vengono a galla dal suo passato «popolato di terrori e di ombre». Saramago mette in bocca a Leonor ragionamenti non banali, che lei soprattutto rivolge al medico del circondario, suo grande amico e sua difesa dall’apatia in cui è caduta dopo la morte del marito. Come un coro inarticolato, le maestranze commentano l’abbandono della tenuta e la mancanza di direzione di Leonor, che finirà per scuotersi e tornare al lavoro, per poi cedere nuovamente alla forze oscure in cui dibatte il suo animo: «Penso di essere malata, dottore – confessa all’amico Viegas. Mi porto dentro una sensazione di incompletezza opprimente, che mi fa rabbrividire. Sono separata da qualcosa, senza la quale non penso, non vivo».

Alla mercè della domestica
Sarà una défaillance della condotta cui la obbliga l’integralismo della sua educazione cattolica, unita al conformismo dei confini ristretti in cui abita, a gettare il suo destino alla mercè della domestica Benedita, che da amorevole cameriera si trasforma in persecutoria accusatrice, divenendo non soltanto l’arbitro della vita di Leonor, ma la proterva garante della reputazione dell’intero podere.

Confortata nei suo deliri di colpa dall’unica presenza laica del circondario, il medico Viegas, Leonor cerca di scomporre le sue paure in pensieri ammaestrabili fino a svuotarli di contenuto. Spiando «quel significato che fremeva vicino all’inconscio», cerca di tenere a bada la disistima di sé che le deriva dall’avere confessato «la propria vergogna» a chi ne ha approfittato per prenderla in pugno. Saramago alterna le irruenze espressive di una scrittura immatura a ragionamenti che lasciano intravvedere la fisionomia di uno scrittore corretto e tradizionale, dunque ancora sideralmente distante da quella che sarebbe diventata la sua magnifica fisionomia narrativa, riconoscibile a apertura di pagina. A connotarla contribuirà non solo il continuum di una scrittura che ingloba senza stacchi i dialoghi, ma anche quella vena allegorica che Saramago inaugurò con Cecità, unita all’ironia che facendo irrompere la voce del narratore tra le righe, ricorda ogni tanto a chi legge di essere pur sempre dentro un mondo di finzione.
Proprio perché sconosciuti al venticinquenne Saramago, che con tessitura realistica imbastisce la storia della sua Vedova, tutti gli artifici narrativi che avrebbe introdotto nei suoi futuri capolavori romanzeschi si rivelano ora perfino più apprezzabili: illuminati a posteriori da un esordio narrativo per nulla fulminante, si manifestano non come l’irriflessivo frutto di un irrazionalizzabile talento, bensì come il lavoro di un pensiero che avrebbe trovato nella grammatica del romanzo il suo approdo definitivo.