Sarai Shavit, la forza nella fragilità delle parole di pace
L'intervista Parla l’autrice di «Lettera d’amore e d’assenza» per Neri Pozza. Figlia dei fondatori del kibbutz Nir Oz, la scrittrice israeliana racconta il suo lavoro con i palestinesi. «Chi scrive gode del privilegio di raccontare delle storie, ma ha anche la responsabilità di aiutare i lettori a porsi delle domande»
L'intervista Parla l’autrice di «Lettera d’amore e d’assenza» per Neri Pozza. Figlia dei fondatori del kibbutz Nir Oz, la scrittrice israeliana racconta il suo lavoro con i palestinesi. «Chi scrive gode del privilegio di raccontare delle storie, ma ha anche la responsabilità di aiutare i lettori a porsi delle domande»
Una giovane aspirante scrittrice. Uno scrittore affermato già in là con gli anni. Un’intensa passione che non riuscirà però a mutare le loro vite: lui è sposato e sua moglie aspetta un bambino. Una lunga relazione clandestina, intrecciata alle loro vicende professionali, le presentazioni all’estero dei romanzi dell’uomo, e lei che lo segue tra un party e un incontro accademico. Una situazione sempre più difficile da vivere, fino alla decisione, da parte di lei, di porre fine alla relazione.
Vent’anni più tardi un incontro casuale, l’emergere della consapevolezza che si sono amati davvero solo quando, dopo che entrambi avevano perso la madre, hanno consegnato all’altro, in un abbraccio, la propria fragilità. Un amore che, infine, trova forma e voce nella lunga lettera che la donna scrive non tanto all’uomo, cui non sarà mai inviata, ma forse a se stessa, per misurare, ancora una volta attraverso la parola, la sua «arte» e insieme il suo modo di guardarsi dentro come di guardare il mondo. In Lettera d’amore e d’assenza (Traduzione di Sarah Kaminski e Maria Teresa Milano, Neri Pozza, pp. 190, euro 14,50), un intenso romanzo che alterna prosa e poesia, Sarai Shavit si presenta ai lettori definendo una sorta di spazio narrativo inedito dove si intrecciano la ricerca di una forma perfettamente plasmata e l’irrompere volutamente scomposto delle emozioni.
Quarantuno anni, scrittrice, poetessa, editor, docente di scrittura creativa alla Tel Aviv University e direttrice della rivista Moznayim, attiva nel movimento di protesta contro il governo Netanyahu, definita da Eshkol Nevo come «la star della nuova letteratura israeliana», Shavit era impegnata nei giorni scorsi in una serie di incontri in Italia, mentre nel suo Paese avveniva la strage di Hamas e montavano i venti di guerra a Gaza.
Nel suo libro l’amore sembra affermarsi più nell’assenza, nel suo sentirsi negato: un’esistenza alimentata dal «non essere» più che dalle chance che ha di poter venire vissuto fino in fondo. Di cosa ci parla davvero?
Di una storia d’amore che non è andata a buon fine. E credo che nella letteratura siano poi quelle più interessanti. Non a caso ho utilizzato la prosa per costruire una sorta di fiction, scandita da brevi episodi, intorno alle vicende dei protagonisti, e la poesia per dare spazio ai sentimenti della donna. Questa modalità narrativa mi è servita infatti per mettere al centro della vicenda la voce di una giovane donna, quando spesso queste voci restano un po’ sul fondo. Incontrando un uomo molto più grande di lei questa donna non ha modelli cui guardare, altre donne cui ispirarsi, e così è attraverso la propria parola, il raccontare in una lettera ciò che vive dentro questa relazione che matura la consapevolezza di quello che ha provato. Credo che non avrei potuto scrivere il libro prima del movimento del Me Too. All’inizio, l’uomo la desidera solo fisicamente, ma poi, dopo essersi confessati le proprie fragilità, i due si innamorano davvero. Anche se questo resterà un amore «proibito», entrambi prenderanno qualcosa dall’altro e questo scambio diventerà il cuore del loro rapporto. Quando ho finito di scrivere l’ultima pagina mi sono ricordata di una frase che mi aveva detto una volta Amos Oz, vale a dire che secondo lui ogni scrittore è in qualche modo orfano, anche chi non ha perso i genitori, perché sta comunque cercando qualcuno cui ispirarsi o da cui prendere le parole, senza sentirsi mai fino in fondo soddisfatto in questa ricerca.
Il suo libro sembra affermare la forza, il potere della parola. In questo senso, quale ruolo possono giocare in questo momento drammatico le scrittrici e gli scrittori israeliani, esponenti di una letteratura che in tutto il mondo ha imposto la riflessione sul conflitto e molte ipotesi di pace, ma che appaino poco ascoltati in patria?
Nel passato, soprattutto gli scrittori israeliani, più delle scrittrici, erano direttamente impegnati in politica e intervenivano spesso sui giornali facendo pesare la loro opinione nel dibattito del Paese. Oggi, forse anche per come sono cambiati i mezzi di informazione, con i social, le piattaforme digitali e via dicendo hanno perso molta della loro influenza. Eppure, gran parte degli autori e delle autrici del Paese, me compresa, hanno preso parte personalmente alle mobilitazioni contro il governo Netanyahu aderendo ad una sorta di coordinamento che anche negli ultimi giorni si è interrogato su come intervenire in questo clima di guerra per spiegare cosa sta accadendo.
Tra i kibbutz non lontani da Gaza attaccati da Hamas il 7 ottobre, c’è il Nir Oz nel nord del Negev in cui hanno vissuto a lungo i suoi genitori…
Nel 1965 mia madre è arrivata in quella zona e ha conosciuto mio padre e entrambi sono rimasti a vivere lì. I miei genitori erano figli di emigranti, giovani e entusiasti e sono stati tra i fondatori del kibbutz Nir Oz di cui purtroppo si parla in questa terribile circostanza. In seguito mio padre ha cominciato a lavorare per la sicurezza israeliana e per vent’anni i miei hanno vissuto all’estero. Però in ciò che scrivo, come anche nelle prime pagine di questo romanzo, si parla spesso dei kibbutz del Negev, perché, anche se forse non ne sono fino in fondo consapevole, per me quella è «casa». Nell’attacco a Nir Oz alcuni amici dei miei genitori sono stati rapiti, altri uccisi, altri hanno visto uccidere i bambini davanti ai loro occhi, altri ancora hanno visto trascinare via, verso Gaza, i propri cari o persone che conoscevano. Un massacro, un atto di terrorismo inspiegabile, una tristezza allucinante. Da scrittrice israeliana abituata a fare i conti con quanto accade nel mio Paese, questa è una storia che non avrei mai neppure potuto immaginare.
Ora sembra esserci spazio solo per il dolore e per il conflitto, ma come immagina che i due popoli potranno tornare a misurarsi con la possibilità della pace e del reciproco riconoscimento visto che il futuro di Israele è legato al futuro della Palestina e viceversa?
Io ho 41 anni e malgrado la strategia messa in atto nell’ultimo anno dal governo del mio Paese, un governo pericoloso che ha utilizzato la religione e la cultura ebraica per promuovere un’ideologia violenta e di estrema destra, sono fermamente convinta che si debba trovare una soluzione che ci faccia vivere gli uni accanto agli altri. Non so come, ma so che è giusto e necessario. Perché i nostri figli non muoiano più, perché i figli dei palestinesi non muoiano più. E credo che sconfiggere Hamas vada in questa direzione, per entrambi i popoli.
Quanto al vivere insieme, lei lavora già con degli autori palestinesi?
Oltre che scrittrice sono anche un’editrice e proprio in questo momento mi sto occupando del progetto di un libro nato da un’idea dei familiari di alcuni morti israeliani e palestinesi. Sono dodici storie brevi per ciascun gruppo la cui redazione è stata affidata ad altrettanti scrittrici e scrittori israeliani e palestinesi che vivono sia in Medioriente che nel resto del mondo. L’edizione della parte araba, perché si tratta di un libro bilingue, è curata da Raja Burbesi. Nel contesto sanguinoso in cui ci muoviamo, l’obiettivo del libro è raccontare la storia delle due parti a partire dalla compassione e dall’empatia reciproca, per poter iniziare davvero una vita insieme. E tutti gli autori coinvolti, da entrambe le parti, sono stati fin dall’inizio entusiasti del progetto. Gli scrittori godono del privilegio di poter raccontare delle storie e inventare dei personaggi, ma credo che allo stesso modo abbiano anche la responsabilità di aiutare i propri lettori a porsi delle domande, a modificare le loro idee preconcette, a far evolvere il loro pensiero.
Lei ha citato Amos Oz che nelle sue storie ha spesso condotto i lettori a riflettere sulla fragilità dei legami amorosi come, sul fondo, dello stesso animo umano. I protagonisti del suo libro scoprono di amarsi quando ammettono e esprimono all’altro le proprie fragilità. E se fosse questa, anche di fronte alla crisi attuale, la chiave per il dialogo, per l’incontro? La possibilità che Israele non temesse di mostrare anche la propria fragilità?
Mentre ascoltavo la domanda pensavo a «Anthem», una canzone piena di speranza di Leonard Cohen che parla di come ci sia «una crepa in ogni cosa, ed è così che entra la luce» o a una frase di Mosè Maimonide, uno dei grandi pensatori dell’ebraismo, che diceva che solo «un cuore rotto è un cuore completo». Ai miei occhi Israele è sempre stato fragile, minacciato nella sua esistenza fin da quando è nato, ma credo che di questa fragilità specie le sue voci letterarie siano sempre state in grado di parlare. E, passato questo momento terribile, torneremo certamente a farlo.
Come sta vivendo questi momenti?
Il mio cuore è con i militari che combattono Hamas, con gli ostaggi e le loro famiglie e con la popolazione innocente di Gaza.
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