Il governo libanese adotta la linea dura per contenere il Covid-19. L’11 marzo vengono chiuse ufficialmente scuole e attività commerciali, anche se c’era già un fermo discrezionale da una settimana. Poi il 19 marzo l’aeroporto.

I dati ufficiali contano a ieri 677 contagiati e 21 decessi. A prima vista, una risposta sorprendentemente efficiente, se non parlassimo di un paese che fa i conti con uno dei momenti più complessi della sua storia recente.

Facciamo un passo indietro. In breve. Il 17 ottobre scorso scoppia in tutto il Libano una rivolta pacifica dovuta alla crisi economica più profonda dal 1970-75, periodo precedente la guerra civile (’75-90). I manifestanti chiedono la rimozione in blocco della classe politica corrotta, un governo tecnico per riformare il paese e nuove elezioni. Hariri si dimette.

È incaricato di sostituirlo e formare un governo l’attuale premier Diab. Disattese le aspettative, le proteste continuano, sebbene la partecipazione subisca un fisiologico calo a dicembre. A gennaio la tensione risale, ma ora gli scontri diventano accesi: la polizia è accusata di violare i diritti umani.

Vengono sfasciati Atm e ingressi di banche, poiché conti e trasferimenti sono bloccati, i prelievi ridotti al minimo e non sono più rilasciati dollari americani (moneta ufficiale con la lira libanese e necessaria per gli scambi con l’estero), da mesi reperibili solo al mercato nero. Ma se il cambio ufficiale è un dollaro a 1.515 lire, quello ufficioso è il doppio.

Inevitabilmente, il 9 marzo il Libano dichiara insolvenza. A questo punto, il Covid-19. Il 27 marzo Diab estende il lockdown e ordina un coprifuoco dalle 19 alle 5.

Per garantire il rispetto delle misure usa l’esercito che come primissima azione il 27 sera arresta alcuni manifestanti a Piazza dei Martiri e brucia le tende del presidio simbolo della protesta. Pochi giorni fa a un altro luogo simbolo, Piazza Sahat al-Nour a Tripoli, tocca la stessa sorte.

La classe politica tutta, la stessa di prima, si affretta in proclami sulla necessità di unità cercando di scatenare quello che Mueller definì rally-‘round-the-flag-effect, stringersi attorno alla bandiera. Per i vecchi partiti è l’occasione per riacquistare credibilità comprando con la distribuzione di aiuti il sostegno di una popolazione stremata dalla crisi.

Significativo il caso di Ghyath Hammoud, uno dei principali attori della protesta nel poverissimo Akkar, picchiato e arrestato per aver contestato il mercimonio.

I dati ufficiali del ministero della salute sono però poco attendibili, visti pure gli stretti contatti con l’Iran, tra i focolai principali, continuati anche dopo le restrizioni.

Silenzio più totale sui campi profughi: due milioni di siriani, 300mila palestinesi in condizioni igienico-sanitarie pessime in un paese, il Libano, grande come l’Abruzzo.

La sanità privata – quasi tutta – emblema delle sfrenate politiche sfrenate della ricostruzione post-guerra civile, già in difficoltà per la crisi e a cui lo Stato è debitore, è impreparata all’emergenza. L’unico ospedale pubblico equipaggiato, il Rafic Hariri, non può sopperire all’intero fabbisogno nazionale.

Se gli assembramenti vengono formalmente impediti, la gente continua a circolare più o meno liberamente sia nelle città che nelle periferie – per non parlare dei sobborghi sovrappopolati – senza particolari controlli, dando l’impressione, a pensar male, che il contagio sia più probabile e il virus più pericoloso solo se ci si incontra per fini politici.

Intanto il 17 l’Unifil denuncia l’ennesima prova di forza in questi giorni di Israele che ha lanciato razzi nella Linea Blu al confine.

A Tripoli venerdì gruppi di manifestanti hanno bruciato in piazza copertoni gridando che è meglio morire di Covid che di fame. Ieri un’altra protesta. Il governo promette aiuti, ma al momento quasi niente di fatto. Una vera e propria polveriera.