Vende cara la pelle Amrullah Saleh, capo dei servizi segreti al tempo di Karzai e oggi vice-presidente. Ieri è sopravvissuto al secondo attentato in pochi mesi: una bomba piazzata ai lati della strada, nel quartiere residenziale di Taimani, a Kabul, e fatta scoppiare al passaggio della sua automobile ha provocato almeno dieci vittime e decine di feriti.

SALEH, TAGICO CHE PROVIENE dalla cerchia più intima dell’ex leone del Panshir Masud, di cui ricorre l’anniversario dell’assassinio in questi giorni, è rimasto illeso. Due ore dopo l’attentato era davanti alle telecamere, in piedi, di fronte a una bandiera afghana, come a difendere le istituzioni della Repubblica, con la mano sinistra fasciata. Un’immagine che ricorda quella di pochi mesi fa, quando riuscì quasi miracolosamente a scappare, rifugiandosi sul tetto, dai militanti che avevano preso d’assolto il suo ufficio, il primo giorno della campagna elettorale che lo avrebbe portato poi a diventare vice-presidente. Anche allora si era fatto subito ritrarre insieme ai leader politici accorsi a dimostrargli sostengono.

Saleh è stato voluto da Ashraf Ghani, che pure aveva criticato fino a pochi mesi prima, appoggiando invece il suo eterno sfidante, Abdullah Abdullah, oggi a capo dell’Alto consiglio per la riconciliazione nazionale, l’organo che ha il compito di indirizzare i negoziati con i Talebani il cui inizio è imminente a Doha, dopo tanti rimandi e posticipi.
E proprio in rapporto al processo di pace va letto l’attentato a Saleh, forse il più esplicito tra i politici afghani nel denunciare non solo i Talebani, con i quali nei giorni scorsi ha detto che come uomo non vorrà mai avere a che fare, anche se il suo ruolo di vicepresidente gli impone di negoziare. Ma anche con l’establishment militare del Pakistan, che Saleh – e con lui tanti afghani – considera manovratore dei Talebani.

GLI ORGANI DI PROPAGANDA degli studenti coranici si sono affrettati a negare ogni coinvolgimento nell’attentato a Saleh, mentre Zalmay Khalilzad, l’inviato speciale del presidente Trump che ha fretta di capitalizzare il dossier-afghano in chiave elettorale, ha detto che chi vuole sabotare il negoziato non avrà vita facile. Ma l’attentato a Saleh, di cui il ministro degli Interni ha attribuito la responsabilità alla rete Haqqani, l’ala più radicale dei Talebani il cui leader Sirajuddin è ora numero due del movimento, dimostra quanto la via negoziale sia difficile.

Difficile perché ci sono attori a cui conviene continuare a combattere. E difficile far sedere al tavolo negoziale i Talebani e i rappresentanti del governo e della società afghana. Il primo, storico incontro sarebbe dovuto avvenire entro il 10 marzo, a ridosso dell’accordo politico tra i Talebani e gli Stati uniti del 29 febbraio, premessa del dialogo intra-afghano.

Ma fino a poche ore fa i due attori non si erano trovati. Proprio perché l’accordo tra barbuti e Talebani si impegnava anche per il terzo attore, escluso da quell’accordo: il governo afghano. Che ha dovuto digerire tutto, perfino il rilascio di 5.000 detenuti talebani in cambio di 1.000 prigionieri governativi. E che ha puntato i piedi soltanto sull’ultima mezza dozzina, quelli considerati pericolosi perfino dalle cancellerie straniere, perché autori di stragi che hanno coinvolto stranieri. Come se la vita degli afghani valesse meno.

SULLA MEZZA “SPORCA DOZZINA” si è poi trovato un accordo: stanno per essere liberati, sì, ma trasferiti sotto la custodia del Qatar. Il cui governo si appresta a ospitare l’inizio di uno storico negoziato, che comincia nel sangue dei civili e che funzionerà soltanto se troverà il modo di tutelarne vita e dignità.