«Nei due giorni che hanno preceduto la scarcerazione ero davvero in ansia. So che avrei dovuto essere entusiasta all’idea di tornare libera, ma non ero totalmente sicura che sarebbe successo, perché altre persone nelle mie stesse condizioni, poco prima di uscire sono state accusate di ulteriori reati, con il conseguente slittamento in avanti sia dei processi che delle pene».

L’ATTIVISTA EGIZIANA Sanaa Seif, 28 anni, rilasciata lo scorso 23 dicembre dal carcere femminile di Al Qanater El Khayereya, a nord del Cairo, racconta così le ore immediatamente precedenti al suo ritorno in libertà. Libertà sopraggiunta dopo aver scontato per intero la condanna a 18 mesi per «divulgazione di notizie false tramite i social media» e «offesa a un pubblico ufficiale».

L’abbiamo raggiunta telefonicamente nell’abitazione cairota di famiglia, da dove la sua voce arriva con i rumori di fondo della capitale egiziana. «Non ero certa che sarei stata davvero liberata, perché all’inizio delle indagini tra i vari capi di accusa che mi notificarono, ne spiccavano due per terrorismo. Quando sono arrivata in tribunale queste accuse non erano più presenti, non perché decadute, ma semplicemente sospese. Ciò significa che le imputazioni esistevano ancora e se avessero voluto riprenderle in mano, avrebbero potuto farlo. In via non ufficiale mi hanno detto che ancora pendevano su di me, per ricordarmi che la prigione è sempre a un passo».

«In quei giorni – prosegue Seif – non sapevo cosa dovevo aspettarmi. Ma alla fine le cose sono andate abbastanza lisce. Dopo un anno e mezzo di detenzione, che nei primi mesi è stata molto difficile, sono finalmente tornata a casa dove mi aspettava la famiglia. Adesso, sono felice».

L’ARRESTO, AVVENUTO il 23 giugno 2020 da parte di poliziotti in borghese, mentre si recava in procura per denunciare una rapina e un’aggressione fisica subita la notte precedente durante un sit-in in favore del fratello – nonché attivista di spicco – Alaa Abd El-Fattah, è il terzo per Seif, ritrovatasi suo malgrado sin da giovanissima a impegnarsi nello stesso percorso intrapreso da tutta la famiglia: la madre Laila Soueif, docente universitaria e militante per i diritti della donne, il padre Ahmed Seif El-Islam avvocato attivo sin dagli anni settanta, la sorella Mona e il fratello Alaa, attualmente in carcere dopo l’ennesima condanna a 5 anni .

Anche Seif si è gettata con tutte le sue forze nella ricerca di un senso di giustizia a metà tra le vicende personali e quelle collettive: «Sono stata arrestata la prima volta nel 2014. È stato un grande shock per tutta la famiglia perché, oltre ad essere la più piccola dei fratelli e dei nipoti, ero la meno coinvolta nella politica. Ero la persona che percepiva che questo era un percorso senza speranza per la vita. Certo, vedevo che c’era un sacco di ingiustizia nel nostro paese, ma non ritenevo di dover fare qualcosa per cambiarlo perché mi sentivo senza speranza. Le cose sono cambiate nel 2011, in seguito all’arresto di Alaa. Ho iniziato a prendermi cura di lui in ogni modo, ad esempio facendo attenzione a ogni piccolo dettaglio inerente al suo campo di lavoro di modo da riferirglielo durante le visite».

UN RAPPORTO IMPORTANTE quello con il fratello, che a metà tra relazione familiare, mutuo supporto e complicità politica, è stato l’innesco dell’attivismo reale per Sanaa Seif. La quale, grazie a una costante e continua presenza in chiave social media, è diventata una delle voci dissenzienti dell’Egitto contemporaneo.

E che il regime del presidente Abdel Fattah al-Sisi l’avesse individuata come tale, se ne è avuta riprova durante i fatti precedenti l’arresto del 2020: «All’epoca – racconta – mio fratello era in carcere mentre il coronavirus stava dilagando. La nostra richiesta di avere una lettera da parte di Alaa come prova che fosse ancora vivo rimase completamente inascoltata. Per questo mia madre decise di fare un sit-in dimostrativo assieme a Mona e a me. Passammo la notte sulla strada di fronte ai cancelli della prigione di Tora. Eravamo nel mezzo di tre grandi strutture di polizia, un luogo dove nessuno si sognerebbe di rubare nulla, considerato come è monitorato ovunque da videocamere. All’alba, durante il coprifuoco anti-Covid, arrivò un gruppo di donne che iniziò a derubarci e a picchiarci. Hanno spinto mia madre e mia sorella intimando loro di andare via, ma nei miei confronti sembravano aver ricevuto da qualcuno indicazioni di vendicarsi specificamente. Sembrava volessero umiliarmi e mentre mi picchiavano dicevano cose tipo “la polizia ha le scarpe sulla tua testa”. Queste persone erano state istruite dalle forze di sicurezza per colpire me in particolar modo».

COME TANTI ALTRI media attivisti, Seif rimane critica sulla situazione attuale dei diritti umani in Egitto. Riferendosi al recente taglio di 130 milioni di dollari di aiuti militari da parte del Dipartimento di Stato americano, a seguito di una riluttanza del governo di al-Sisi nell’affrontare seriamente la questione, così si esprime: «È stata una mossa simbolica, non pratica. Non stanno veramente diminuendo i contributi per uso militare, al contrario, stanno dando addirittura più fondi per ammortizzare i tagli effettuati».

Errata Corrige

All’indomani del suo rilascio parla la giovane attivista egiziana che insieme al fratello, il noto e perseguitato blogger Alaa Abd el-Fattah, sfida il regime di al-Sisi con la battaglia per il rispetto dei diritti umani. «Sono stata arrestata la prima volta nel 2014. Fu un grande shock in famiglia, perché ero la più piccola e la meno coinvolta in politica»