La carica di primo ministro ancora vacante, la nomina di un ministro dell’Interno ad interim, l’istituzione di un’unità di crisi per gestire la straripante epidemia di Covid-19 e il parlamento «congelato» per un mese.

Il presidente tunisino Kais Saied si è dato pieni poteri il 25 luglio, dicendo che voleva «salvare» la nazione dall’impasse politica e dallo stallo legato alle urgenti riforme economiche per un paese che vive una delle peggiori crisi dalla rivoluzione dei gelsomini del 2011 che portò alla cacciata del presidente Ben Ali.

Questo regime eccezionale è stato denunciato dai suoi oppositori del partito di ispirazione islamista Ennahdha come un «golpe» che mina la stabilità della giovane democrazia tunisina.

Il manifesto ne ha parlato con Habib Kazdaghli, preside della facoltà di Storia dell’università Manouba di Tunisi, esponente della sinistra tunisina e paladino della lotta all’islam reazionario.

La sospensione del parlamento: un rischio di deriva autoritaria o il tentativo di Saied di uscire dall’impasse politica?

Direi che quello di Saied è stato il tentativo di trovare una soluzione «estrema» alla crisi politica che sta colpendo il nostro paese da diversi mesi. Il presidente, un conservatore, ha applicato l’articolo 80 della Costituzione, relativo a un «pericolo imminente per il paese», indicando che la forte crisi sociale e sanitaria in Tunisia era diventata insostenibile per la popolazione, senza una decisa azione di governo da parte dell’ex premier Mechichi. Una scelta che indica anche i limiti della nostra giovane democrazia: le mancate riforme per la creazione della Corte costituzionale fanno sì che sia il presidente della Repubblica a interpretare la Costituzione.

Habib Kazdaghli

Si sono delineati due schieramenti, quello che sostiene la visione golpista di Ennahdha e quella pro-Saied. Chi ha ragione?

Questa settimana è uscito un sondaggio che indica che oltre l’87% della popolazione è d’accordo con la scelta di Saied. Il 25 luglio coincideva con l’ultimatum legato alle richieste dei deputati di Ennahdha di ottenere delle compensazioni economiche, in un periodo di forte recessione e povertà tra la popolazione, cosa che ha fatto scendere in piazza la gente esasperata. Anche la decisione di togliere l’immunità parlamentare ha l’obiettivo di contrastare un altro grosso problema della nostra nazione: la corruzione politica. Bisogna aggiungere, poi, che l’attività parlamentare è stata carente, accompagnata da pessimi episodi di inciviltà come alcuni attacchi contro le deputate donne da parte di esponenti islamisti. Un progressivo decadimento dell’Assemblea parlamentare che è frutto dell’attuale coalizione di maggioranza composta dal partito islamista moderato Ennahdha, dal partito estremista Al Karama e da Qalb Tounes, guidato dal controverso Nabil Karoui, il «Berlusconi tunisino».

Gran parte della sinistra e della società civile tunisina è favorevole a questa decisione. Siamo consapevoli del rischio di una deriva autoritaria visto anche che Saied non ama dialogare con nessuna forza politica, ma siamo fiduciosi riguardo ai contatti tra parti sociali e presidente, grazie soprattutto alla mediazione del sindacato dell’Unione generale dei Lavoratori tunisini (Ugtt) per l’istituzione di una precisa «roadmap» al termine di questi 30 giorni.

Quali sono le aspettative e le soluzioni auspicate dalla società civile?

Serve un dialogo nazionale inclusivo come nel 2014 che preveda un governo di transizione per avere in tempi rapidi una nuova legge elettorale, la creazione della Corte costituzionale per una divisione dei poteri e per arrivare a nuove elezioni legislative. Il presidente sembra intenzionato a muoversi in questa direzione in accordo con l’Uggt e le parti sociali, ma aspettiamo la pubblicazione del documento ufficiale. Sicuramente una migliore divisione dei poteri e un parlamento rinnovato, con forze politiche e sociali differenti, potrebbe portare a un governo capace di prendere serie misure sulla crisi sociale ed economica, la vera urgenza del paese.

Che ruolo hanno in questa crisi i paesi stranieri?

Ci sono forti pressioni da parte di alcuni paesi come gli Usa, la Francia o la Turchia, sponsor e sostenitore di Ennahdha. I paesi occidentali hanno mostrato il loro cinismo legato a interessi economici e geopolitici. Molti hanno raccolto «il ricatto» del partito islamista su un rischio di maggiore instabilità: la minaccia del terrorismo jihadista e lo sbarco di migliaia di immigrati sulle coste italiane ed europee, come dichiarato recentemente dal leader di Ennahdha, Rachid Ghannouchi. Sembra paradossale visto che, in cambio di una certa stabilità politica, alcuni paesi fanno proprio affidamento a una coalizione islamista che ha favorito l’ascesa dello jihadismo nel paese.

Molti tunisini, al contrario, pensano che questo «pericoloso azzardo» di Saied sia una nuova chance per rilanciare lo spirito della rivoluzione che cacciò Ben Ali e che oggi può tentare di combattere l’inerzia e la corruzione endemica contro il partito che da un decennio rappresenta di più questa visione clientelare e reazionaria nel paese: Ennahdha.