Decine di anziani regolarmente si ritrovano per sfidarsi in tornei di burraco o per intonare all’unisono qualche vecchio tormentone durante un concerto organizzato nell’ampia sala di un hotel a pochi passi dal mare.

Sono svaghi e tradizioni a cui sarebbe normale assistere in qualsiasi villaggio-vacanza in riviera, ma che un nutrito gruppo di pensionati italiani ricrea regolarmente in Tunisia, il paese del Maghreb che con i suoi inverni sempre miti e un costo della vita bassissimo offre a migliaia di italiani il sogno di una terza età da trascorrere a prezzi modici.

«QUANDO SI VA in pensione c’è sempre il rischio di sedersi in panchina. Per evitare questo rischio, io e mia moglie abbiamo deciso di cambiare vita, e abbiamo pensato che uno dei luoghi più appetibili per dare una svolta fosse Hammamet», racconta Donato Ladik, classe 1949, presidente dell’Associazione Italiani di Tunisia. «Non volevo essere il pensionato che non produce più nulla. Così ho fondato questa associazione per organizzare viaggi, concerti, conferenze. Abbiamo dato anche una mano a girare il film su Bettino Craxi».

Hammamet rappresenta una delle mete tunisine più gettonate dagli italiani. Passeggiando tra le caffetterie che si affacciano sul Mediterraneo è facile intercettare eleganti signore e signori che, col viso rivolto al sole, intavolano conversazioni dalla spiccata inflessione lombarda, veneta, laziale. «Quello tunisino è un mondo totalmente diverso dal nostro, senza stress. È una vita paragonabile a quella dell’Italia degli anni Sessanta», spiega Ladik.

Ma oltre alle temperature clementi e al fascino delle architetture color pastello, a rendere questo paese davvero rilassante è la questione fiscale: chi sceglie di vivere in Tunisia può beneficiare di una tassazione effettiva che si abbassa drasticamente e va dal 5 al 3%. «Qui arrivano sia coloro che in Italia hanno la pensione minima – riferisce Ladik –, sia coloro che ce l’hanno alta. Ma direi che è una specie di atto di legittima difesa nei confronti del nostro sistema di tassazione».

PER USUFRUIRE di questa agevolazione sono sufficienti pochi requisiti, tra cui la permanenza sul suolo tunisino per almeno sei mesi e un giorno all’anno, anche non continuativi. Sarah Marturana, che ad Hammamet gestisce l’agenzia Toc Toc Tunisia e cura le pratiche dei pensionati che vogliano trasferire nel paese arabo la pensione, spiega però che questo non è un problema: «La maggior parte di chi viene a vivere qui resta sempre più del limite richiesto, perché si trova bene. Ha la possibilità di ricominciare una vita nuova».

La scelta del Portogallo di mettere fine a partire da quest’anno ai regimi agevolati per i pensionati stranieri porterà presumibilmente a un aumento del flusso verso altre destinazioni come la Tunisia, che però rappresenta a suo modo un caso eccezionale. Insieme a Cile, Australia e Senegal, è l’unico Paese al mondo in cui usufruiscono dell’agevolazione fiscale anche gli ex dipendenti del comparto pubblico. Questo è il motivo per cui «qui arrivano un sacco di forze dell’ordine, Carabinieri, finanzieri, medici, docenti», spiega Marturana.

In un progetto di vita che appare senza ombre, l’unica nota stonata è la lingua. Tuttavia, anche questo ostacolo è aggirabile. «La principale difficoltà è l’arabo. Tanti pensionati insistono per venire ad Hammamet perché qui si parla molto l’italiano. Il tunisino inoltre guarda tanta televisione italiana e, quando si va a fare la spesa dal fruttivendolo o dal macellaio, c’è sempre qualcuno che parla italiano».

Il filo che lega Italia e Tunisia è a doppio senso: mentre ogni anno decine di anziani sono disposti a lasciare la casa di sempre con l’obiettivo di accumulare tesoretti per far fronte alle incertezze del futuro, molti più giovani tunisini affrontano un iter burocratico lungo e dispendioso per studiare nelle università italiane attraverso un percorso di migrazione legale.

Ma i requisiti da possedere per riuscire nell’impresa del trasferimento sono molto più ostici, nonostante sullo sfondo dei loro progetti ci sia lo scenario di un paese con una situazione interna sempre più critica sia sul piano finanziario, con una disoccupazione giovanile che raggiunge picchi del 40%, sia su quello socio-politico, con il presidente Kaïs Saïed che ha inasprito la repressione e smantellato le garanzie istituzionali sui diritti umani.

LO SANNO BENE gli studenti tunisini a cui lo scorso autunno l’ambasciata italiana ha rifiutato il visto di studio necessario per frequentare un ateneo in Italia. In passato per il visto bastava presentare i documenti richiesti, tra cui la preiscrizione a un’università, la prova di avere almeno seimila euro sul conto e un attestato di lingua di livello B2.

Dallo scorso anno la procedura di rilascio è diventata molto più complessa, a causa dell’introduzione di un colloquio obbligatorio. Le modalità di questa sorta di esame orale non sono specificate da nessuna parte e la stessa ambasciata ha confermato che in passato era opzionale. È stato poi esteso a tutti i richiedenti alla luce dell’aumentato flusso migratorio dalla Tunisia.

Sul foglio ufficiale di rifiuto, molti dei giovani «respinti» si sono trovati spiegazioni singolari, come l’età troppo avanzata (non esiste un limite anagrafico per studiare) o la presunta incoerenza con il precedente titolo di studio. «La mia maturità è economia e gestione, poi mi sono laureato in management. È lo stesso campo ma mi hanno detto che c’è un’incoerenza di studi», spiega uno delle centinaia di studenti che hanno preso parte a due proteste lo scorso dicembre per chiedere all’ambasciata di rivedere l’esito del colloquio.

Stando alle parole dei ragazzi, in alcuni casi questo includeva domande inerenti la sfera sentimentale o le posizioni politiche: «Io ho dovuto rispondere a domande come “perché sei separata?” e “dove sono i tuoi figli?”. Mi hanno chiesto anche la mia opinione sulla questione palestinese», riferisce una giovane. L’ambasciata ha però negato, assicurando che il confronto miri solo a verificare l’idoneità dei candidati.

«ABBIAMO manifestato per ottenere un risarcimento, che avrebbe dovuto comprendere il visto, la borsa di studio che non abbiamo potuto chiedere in Italia a causa dei termini ormai trascorsi e il pagamento dell’alloggio universitario che, sempre a causa del ritardo, non abbiamo potuto ottenere – spiega Nidhal Barhoumi, il rappresentante del comitato studentesco – Di fronte alla richiesta di chiarimenti non c’è stata data risposta».

Nel frattempo, chi ancora non ha affrontato il colloquio guardano con timore a quanto successo. Come Chedly Jazzar, che sta investendo in un corso di italiano per ottenere un certificato di lingua fondamentale per il visto: «Vorrei andare in Italia per studiare finanza. Se l’ambasciata dovesse rifiutare, continuerò a provarci finché non ci riuscirò».