Cenk Sahin deve essere piuttosto superficiale, oltre che un calciatore con il meglio della carriera alle spalle. La maglia del St.Pauli, che da qualche ora l’ha licenziato in tronco dopo il post di supporto all’invasione dell’esercito turco in Siria, è un concentrato di storia, tolleranza, inclusione. Ideali che non conoscono strade per la la violenza, per l’oppressione. Invece traditi con il sostegno di Sahin alla vergogna turca, come tanti colleghi della nazionale che si sono esibiti davanti alle telecamere più volte con il saluto militare, in appoggio a Erdogan.

IL CLUB TEDESCO è stato diretto, senza filtri, come Pep Guardiola che legge il manifesto degli indipendentisti catalani, vittime della deriva autoritaria spagnola, dopo le sentenze di condanna: Sahin è stato così licenziato perché non in linea con gli ideali del club, poco sostenuto dall’Uefa, che sostanzialmente tace come l’Europa, non condanna, pensa agli equilibri, a non toccare lo status quo, senza rispetto per la dignità delle persone.

 

 

Si sono adeguate anche le società, soprattutto italiane. Non una voce, una condanna attraverso i social, della Roma su Cengiz Under, già in passato infuocato sostenitore della linea Erdogan. E così la Juventus con il difensore Demirel e il personalissimo revisionismo storico sulla vicenda tra turchi e curdi mostrato via social e così il Milan con Hakan Calhanoglu. Sono stati i tifosi delle squadre italiane, via web, a chiedere l’intervento (non arrivato) delle società per i propri tesserati, oltre a sostenere la causa, abbracciata anche dalla politica nelle ultime ore, di non far giocare la finale di Champions League a Istanbul, il prossimo 20 maggio. Anche la Uefa ieri è stata costretta ad aprire un’inchiesta sul saluto militare esibito dai calciatori turchi.

 

 

SAHIN HA SBAGLIATO. Non ha letto i giornali, neppure un occhio a Google: il St. Pauli, che gioca nella seconda divisione tedesca, la Zweite Liga e che è di casa nel quartiere a luci rosse di Amburgo, il Reeperbahn, a un passo dal porto della cittadina tedesca, è un concentrato del basso, tra prostitute, artigiani, dei reietti, gli ultimi, in questo caso i poveri curdi. È un riflesso della sottocultura punk che negli anni Ottanta si è impossessata della città con l’occupazione delle case dei cantieri navali che gli operai avevano abbandonato. Rifugge da tutto quanto faccia rumore per la retorica borghese. Valori progressisti, pacifismo, politica dell’accoglienza. Rifiuto dell’intolleranza, dall’antirazzismo a un calcio meno ricco, globalizzato, che svilisce i contenuti, a favore degli interessi.
Sahin non c’entra nulla con lo spirito del club. Nello stadio del St.Pauli, tra l’intro di Hells Bells degli AC/DC e Song 2 dei Blur a ogni rete segnata, non c’è spazio per i tifosi di estrema destra, per i nazi. E le parole d’ordine, se proprio bisogna usare l’espressione, sono il no al razzismo e all’omofobia, che pure sono diffusi nelle curve del calcio tedesco.

E QUINDI SAHIN È SUPERFICIALE e pure poco attento: in dieci minuti, sempre in Rete, potrebbe imparare dai connazionali Hakan Sukur, ex attaccante di Inter e Parma in Italia che ha combattuto Erdogan e le sue violenze dal Parlamento turco, accusato di un golpe, finendo gelataio esule, con beni confiscati, negli Stati uniti; oppure il cestista dei Boston Celtics (Nba) Enes Kanter e il suo pubblico impegno anti Erdogan. Il suo tweet di ieri: «Non vedo e non parlo con i miei genitori da cinque anni, hanno imprigionato mio padre, i miei fratelli non riescono a trovare lavoro. Il mio passaporto è revocato, è stato emesso un mandato di arresto internazionale, la mia famiglia non può lasciare il Paese. Ogni giorno ricevo minacce di morte. Sono attaccato, molestato. Hanno cercato di rapirmi in Indonesia. La libertà non è gratuita».

 

Enes Kanter