Mentre il rapporto tra Ankara e Damasco continua a restare precario, nelle strade della Turchia si assiste a veri e propri pogrom e in Siria cresce la rabbia.

La sera del 30 giugno, nella roccaforte dei partiti fondamentalisti a Kayseri, si diffonde la voce di un caso di molestia sessuale commessa da un cittadino siriano contro una minorenne. In pochi minuti le strade si riempiono di manifestanti e sui social si diffonde il video del caso, insieme a una campagna di linciaggio e odio. Fino alle 2 di mattina vengono presi d’assalto i negozi dei siriani e capovolte le loro macchine. Per le strade della città si sentono slogan fondamentalisti e razzisti, ma anche quelli che chiedono le dimissioni del Presidente della Repubblica. Timido l’intervento della polizia che, quando si tratta di una manifestazione politica, non esita a sparare i candelotti ad altezza uomo e a pestare duramente le persone.

Il giorno dopo, a Kayseri, emergono le immagini del pogrom. La prefettura annuncia che la minorenne è stata presa in protezione e che il colpevole è stato arrestato. Tuttavia, la rabbia non si ferma e nella notte del primo luglio il pogrom si diffonde in altre città. A Hatay, Istanbul, Adana, Urfa e Bursa migliaia di persone distruggono i negozi dei siriani, entrano nelle case e li picchiano, bruciano le macchine e accoltellano due cittadini siriani. Durante le proteste razziste si vedono bastoni di ferro, coltelli e pietre nelle mani delle persone.

«Sono deluso e profondamente triste. Questi momenti di linciaggio ormai sono ordinari. In questo paese il razzismo viene legittimato e i colpevoli vengono difesi» afferma  Emir Monajed, cittadino siriano che vive e lavora in Turchia come rifugiato. «Ormai è un problema anche parlare arabo in pubblico. Dopo questi episodi, i bambini siriani avranno paura di uscire di casa e le donne e gli uomini faranno fatica a girare liberamente per le strade». Così Monajed illustra la paura che provano ormai milioni di siriani che vivono in Turchia. Secondo i dati ufficiali della Direzione della Gestione dell’Immigrazione del Ministero degli Affari Interni, nel 2023 risultavano registrati 3.115.536 cittadini siriani in Turchia. Invece, secondo alcuni partiti d’opposizione che portano avanti una politica razzista e xenofoba, il numero è molto più alto e i siriani devono essere rimpatriati.

Dopo l’inizio nel 2011 della guerra per procura ancora in corso in Siria, è iniziata una forte ondata di fughe verso la Turchia. Successivamente, nel 2016, gli interventi militari di Ankara nel nord del Paese hanno scatenato uno spostamento forzato di persone, sempre verso la Turchia. Oggi, dopo 13 anni di ostilità, guerra, scontri e invasioni, Ankara e Damasco stanno discutendo della possibilità di ripristinare i rapporti.

Il 26 giugno, il Presidente siriano Bashar al-Assad e, il giorno dopo, il Presidente della Repubblica di Turchia Recep Tayyip Erdogan hanno lanciato dei messaggi positivi. Tuttavia, le condizioni che entrambe le parti avanzano da tempo per ripristinare i rapporti sono difficilmente realizzabili. Damasco chiede ad Ankara di ritirare le sue truppe e chiudere i  rapporti con le bande fondamentaliste, definite «terroristiche» dal governo siriano. Ankara, invece, vuole creare una zona cuscinetto nel nord della Siria, specificando che la richiesta è legata alla sua sicurezza nazionale, perché si sente minacciata dalle Unità di Difesa Popolare Ypg/J  presenti nella zona, e chiede a Damasco di collaborare per lo smantellamento di queste formazioni.

Dietro le richieste di Damasco c’è l’obiettivo di riprendere in mano il controllo del nord con le modalità che preferisce. Richiesta respinta da Ankara, che vuole mantenere la sua presenza e assicurarsi che, se dovesse ritirarsi, non ci sarà nessuna minaccia per la Turchia nella zona e che sarà possibile rimpatriare gradualmente i siriani presenti in Turchia. Per ora, il ripristino dei rapporti non sembra facile, dato che le aspettative di entrambi i governi sono molto alte e la situazione in Siria è molto complicata.

Mentre in Turchia si assiste ai pogrom nelle strade, in Siria vengono presi di mira gli obiettivi turchi. A Afrin, Azez, Mare, Cerablus e El Rai le persone hanno bruciato le bandiere turche, preso a sassate i tir turchi, rapito alcuni autisti e accerchiato i palazzi delle prefetture dove lavorano i governatori turchi. Secondo l’Osservatorio siriano per i Diritti umani, tra i manifestanti c’erano persone semplici che protestavano in solidarietà con i loro concittadini presenti in Turchia, ma anche chi protestava contro l’eventuale accordo tra Erdogan e Assad. In questo secondo gruppo ci sono diverse bande armate fondamentaliste d’opposizione, appartenenti all’Esercito libero siriano,  sostenute in vari modi da Ankara per anni e che ora si sentono tradite e abbandonate. Infatti, tra questi gruppi e la polizia ci sono stati degli scontri in cui sono morte quattro persone. Il ministero della Difesa turco ha già annunciato la spedizione di un nuovo gruppo di soldati per sostenere quelli già presenti sul campo.

In tutto questo quadro, della vita di quei milioni di cittadini siriani sia in Turchia sia in Siria non sembra che qualcuno si preoccupi. «C’è un continuo lavoro di disinformazione contro i siriani e in generale gli arabi per alimentare l’odio e il razzismo in Turchia. L’odio contro i rifugiati è molto diffuso». Emir Monajed  illustra così la vita quotidiana dei cittadini siriani in Turchia. E aggiunge: «Io continuerò a lottare e lavorare per una convivenza priva di odio, provocazione e razzismo. Abbiamo bisogno di difendere tutte le persone vittime di discriminazione e esclusione».