Michel Foucault sostiene – in Microfisica del potere – che il principio di autorità contiene in sé, nei propri fondamenti, la necessità della ribellione. Nella complessa rete di relazioni che lega la musica al potere non è accaduto – per la verità – quasi mai. Sulla torre del palazzo del principe è sempre sventolato uno stendardo sonoro. Ed è stato – dal medioevo fino al secolo dei Lumi – l’espressione più alta del suo potere assoluto. C’è però stata, molti secoli fa, una eccezione sorprendente, un’anomalia talmente rara da essere ormai quasi dimenticata. Per trovarla dobbiamo risalire al tempo del regno di Filippo IV di Francia, detto (con qualche ragione, a giudicare dai ritratti ufficiali) le Bel, il Bello. Nato a Fontainebleau nella primavera del 1268 il secondogenito di Filippo III e di Isabella d’Aragona siede sul trono per quasi trent’anni, dal 1285 fino alla morte, nel 1314.

In questo arco di tempo il re di Francia compie una vera e propria rivoluzione: fa sorgere nientemeno che lo stato moderno. Disegna cioè una nuova architettura istituzionale basata non più sul dominio assoluto del sovrano, bensì sulla separazione dei poteri: assegna il governo dei principali corpi dello stato, la Giustizia, la Finanza, il Commercio, l’Esercito a figure del tutto inedite: i ministri e i loro ministeri, dotati di funzionari e di impiegati. Per poter funzionare a dovere, però, la macchina della burocrazia statale ha bisogno di risorse e Filippo se le procura utilizzando l’unico strumento che possiede: la leva fiscale. Affida dunque al suo ministro delle Finanze, Enguerrand de Marigny, il compito di riscuotere i tributi presso le categorie sociali che disponevano di liquidità: i proprietari terrieri, la piccola nobiltà, il clero, l’Ordine del Templari. Il ministro ricorre a metodi di persuasione piuttosto ruvidi: espropriazioni forzate, razzie, sequestri, a volte ferimenti e uccisioni. E la rivolta, inevitabilmente, esplode.

Le armi dei ribelli, del tutto intenzionati a mantenere i propri privilegi, sono proprie e improprie: la resistenza armata, la cospirazione politica, ma anche, ed ecco la novità sconvolgente, le arti liberali: la poesia, la musica, la pittura.  Tra il 1310 e il 1314, al culmine della rivolta antimonarchica, Gervais du Bus, scrittore e impiegato dello stato, stende una fluviale roman de geste che intitola, astutamente, Roman de Fauvel. Protagonista assoluto del racconto è Fauvel, un asino il cui nome è l’acronimo delle iniziali di sei «peccati» capitali: Adulazione, Avarizia, Villania, Incostanza, Invidia e Viltà. L’animale, mettendo a frutto i propri vizi, conquista il trono del mondo e a lui si inchinano tutti i potenti della Terra: re, principi, generali e cardinali. Fauvel, ubriaco di potere, vuole a tutti i costi sposare Fortuna, ma lei si rifiuta e lo fa maritare con Vanagloria che alla fine precipiterà insieme a lui nell’abisso della distruzione. L’allegoria è sin troppo trasparente: Fauvel altri non è che la rappresentazione simbolica di Filippo e nelle vesti di Vanagloria si riconosce facilmente il perfido Marigny, il quale, nella realtà della storia, fa in effetti una pessima fine: nel 1315, dopo la morte di Filippo, viene impiccato con l’accusa di stregoneria.

A rendere unico e irripetibile quello che a tutti gli effetti è il primo romanzo satirico della storia è però la musica. Nel manoscritto originale, oggi conservato alla Bibliothèque Nationale de France, compaiono, inframezzate ai versi e alle incisioni, ben 169 pièces lyriques che comprendono tutti i generi compositivi del tempo, sia monodici che polifonici. Il più noto è senza dubbio il motetto politestuale di Philippe de Vitry, Garrit Gallus, il cui incipit non potrebbe essere più esplicito: «Il Gallo canta – intona il triplum – piangendo tristemente. È afflitta, infatti, l’assemblea dei Galli (…) ingannata astutamente dal suo sovrano. E la volpe, come un becchino (…), prospera ahimè con il consenso del Leone». È nata la prima opera politica nella storia della musica occidentale.