«Ho pianto da sola anche quando era troppo/ Passato anni a cercare il mio posto/ Poi è diventata una questione di orgoglio/ Sui palchi fiato corto/ Per diventare questa è un inferno che rifarei/ Bello il vostro privilegio ma giuro che non ci vivrei». Sono le rime di Hellsy, una giovane rapper genovese che canta l’adolescenza trans, a infiammare il corteo di Roma poco prima dello scioglimento.

Rime che chiudono i conti, forse per sempre, con il retaggio di un otto marzo che fu. Quello dei fiori giallo pallido e delle frasi di circostanza sul rispetto dovuto verso “madri, sorelle, figlie”. Che piaccia o meno i bordi della Giornata Internazionale della donna sono stati scuciti dalla forza di urto di un movimento che include tutti i corpi che si battono per una vita libera. Questa dimensione estesa però era già nota, quello che ha sorpreso ieri è un dato di partecipazione non scontata. Una dignitosa replica alla folla oceanica dello scorso 25 novembre. Stavolta non supportata dalla chiamata nazionale (i cortei erano dislocati in tutte le città) né dal moto di indignazione civile scaturito dall’uccisione di Giulia Cecchettin per mano del suo ex fidanzato.

TRENTAMILA PERSONE, secondo le organizzatrici. L’orario di partenza, le 10 dal Circo Massimo, si prestava al rischio di ridurre le presenze. Lo sciopero a cui hanno aderito solo le sigle del sindacalismo di base e la Flc non bastava a garantire la partecipazione di lavoratrici e lavoratori. In tante hanno preso parte solo simbolicamente perché impossibilitate a disertare il lavoro o perché lo sciopero stesso ha fatto saltare la scuola ai bambini e non sempre si riesce ad affidarli a qualcuno. Paradossi di uno sciopero femminista, si potrebbe dire.

Alcuni hanno risolto portando i pargoli direttamente in piazza. Ben disposti forse grazie al sole e ai tanti cartelli scritti e disegnati, alcuni comodi in carrozzina altri furiosamente sgambettanti, i piccoli esseri umani erano presenti in numeri significativi. Sono le nuove generazioni, ragazzi e ragazze delle scuole, a reclamare il protagonismo della piazza. «Intorno a me ci sono ancora tanti coetanei che hanno atteggiamenti frutto di una cultura misogina. Però noi cerchiamo di asfaltarli e per questo abbiamo speranza nel futuro» dice con innocenza una ragazza dei collettivi scolastici di Roma est.

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IL MONDO DELLA SCUOLA è presente in forze anche con insegnanti e personale scolastico, la manifestazione ha come punto di arrivo il Ministero dell’Istruzione dove ad attendere il corteo c’è un nutrito gruppo di precarie di scuole materne e nidi di Roma capitale, in lotta da anni per l’assunzione. Quasi solo donne e molto combattive, sfidano a suon di fischietti e coreografie l’immobile cintura blu di blindati della polizia che circonda il ministero da tutti i lati esposti.

«Il tema urgente è l’educazione sessuoaffettiva, diversa da quella proposta da Valditara, che parta dal nido fino all’università  e che si articoli per tappe, accompagnando l’età» spiega Elisabetta, insegnante delle scuole medie del collettivo “Cattive maestre”. «Ma scioperiamo anche per le nostre condizioni. Il lavoro degli insegnanti è ormai considerato un lavoro povero, che si fa solo per vocazione, quasi un prolungamento del ruolo materno. Ma in realtà siamo delle professioniste. Dall’ultimo rinnovo del contratto a oggi l’inflazione si è alzata di molto mentre i nostri salari sono rimasti fermi e, già di partenza, sono i più bassi d’Europa».

«È uno sciopero politico, contro la violenza patriarcale e negli ultimi anni anche contro la guerra, ma fin dal 2017 è stato pensato come uno sciopero anche sociale ed economico. Ci vogliamo riappropriare di questo strumento di vertenza che è stato depotenziato dall’atteggiamento dei sindacati confederali» dichiara Marina Montanelli del sindacato autonomo Clap.

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Tra questi contenuti tremendamente urgenti il corteo riesce a non perdere la leggerezza e si snoda accompagnato lungo il percorso dalla musica che spara forte dalle casse. Dal camion a scuotere i corpi ci sono i pezzi di Loredana Bertè e di Mahmood, mescolati a tracce di elettronica spinta e al reggaeton transfemminista che arriva dal Messico e dall’Argentina.

Il resto del mondo non passa però solo dalla musica. La guerra è forse il vero grande tema di questa piazza. Dal microfono vengono citati i numeri dell’industria bellica: «20 miliardi negli ultimi due anni spesi per gli armamenti, con solo la metà si potrebbe garantire assistenza medica a tutte le persone del pianeta».

MA È SOPRATTUTTO L’ASSEDIO a Gaza che pulsa, dall’inizio alla fine, nelle vene del corteo. Non Una Di Meno dal camion si schiera fin da subito: «Le donne palestinesi ci chiedono di usare questa giornata per stare al loro fianco nella lotta per l’autodeterminazione». In piazza le bandiere, gli striscioni e i cori pro Palestina e per la fine del massacro sono disseminati ovunque. La stampa presente si impegna a cercare dichiarazioni su questo: «Come mai queste bandiere della Palestina?» «Voi cosa ne pensate degli stupri di Hamas», le frasi arrivavano da dietro i microfoni indirizzati a persone di tutte le età.

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«Siamo femministe. Ovvio che condanniamo la violenza sia da una parte che dall’altra. Sappiamo bene che la libertà dei popoli oppressi passa attraverso la liberazione delle donne». Parla Francesca Perri della Rete operatori sanitari per Gaza che ci tiene però a ribadire la richiesta di cessate il fuoco immediato e permanente: «Sono un medico e siamo in contatto con i nostri colleghi a Gaza. Non vengono fatte passare nemmeno le incubatrici e i medici sono costretti a operare le persone senza anestesia. Servono corridoi umanitari per i feriti gravi e bisogna contrastare il governo fascista di Netanyahu».

E se il governo israeliano non riscuote successo tra le manifestanti anche quello italiano non se la passa bene. Viene imbrattato di vernice fucsia il cartellone promosso dalla Lega. Ritrae una donna con il velo e la scritta: “In Italia hai gli stessi diritti di tuo marito”.

LA CARTELLONISTICA resta però uno sport sul quale le femministe sono imbattibili: “La prof ha scioperato contro il patriarcato” “Meno obiettori più vibratori” “Aripjateve le mimose pretendiamo diritti” e anche “Canto pure a bocca chiusa” portato da un ragazzo sordomuto nello spezzone del corteo previsto per garantire l’accesso alle persone con disabilità.

Il fiume di gente si scioglie dopo ore di cammino davanti al Miur, intorno alle due del pomeriggio. «La violenza patriarcale ci sottovaluta» dicono dal camion «Oggi abbiamo dato una grande dimostrazione della nostra forza».