In coincidenza con la Giornata internazionale della donna, lo scorso marzo il CIO ha annunciato il raggiungimento della piena uguaglianza di genere alle Olimpiadi di Parigi. Più concretamente, sono stati annunciati 10.500 posti a disposizione delle delegazioni partecipanti, per la prima volta equamente ripartiti fra donne e uomini, che gareggeranno in 152 competizioni femminili, 157 maschili e 20 a composizione mista. Giunge pertanto a conclusione un lunghissimo processo iniziato nel 1900, sempre nella capitale francese, in occasione della seconda edizione dei Giochi moderni, quando appena il 2,2% di atlete partecipò all’evento.

Per quanto il CIO abbia sbandierato la notizia con comprensibile orgoglio, deve imputarsi proprio al CIO il clamoroso ritardo con cui il risultato è stato raggiunto. Il suo fondatore, il barone Pierre De Coubertin, considerava i Giochi l’esaltazione solenne dell’atletismo maschile, «con l’internazionalismo come base, la lealtà come mezzo, l’arte come ambientazione e l’applauso femminile come premio». L’inerzia prodotta da questa misoginia iniziale ha plasmato a lungo l’azione del massimo organo governativo dello sport, tanto che soltanto nel 1981 le prime signore sono entrate a far parte del suo comitato esecutivo. L’anno prima, alle Olimpiadi di Mosca, le ragazze erano salite al 21% del totale degli atleti, dall’11% che erano state a Roma nel 1960, per toccare il 40% a Sydney nel 2000.

Fra le figure che diedero il là al lungo cammino verso la parità è giusto annoverare Alice Josephine Marie Million. Nata a Nantes nel 1884, fu meglio conosciuta col nome del marito, Joseph Milliat, che appena ventenne sposò a Londra. In Inghilterra, conobbe e praticò il canottaggio, il nuoto e l’hockey su prato. Non eccelleva in nessuna di queste discipline, ma in un periodo nel quale sorgevano i primi movimenti femministi, colse in pieno il potenziale liberatorio dello sport. Rimasta vedova, prima della guerra tornò a Parigi dove si impiegò come traduttrice, continuando l’attività sportiva presso il neo-istituito club «Fémina sport».

Il conflitto mondiale scardinò le consolidate relazioni di genere, favorendo un più deciso protagonismo femminile nella società. Milliat ne approfittò per scalare le gerarchie degli organismi sportivi e nel 1919 ottenne la presidenza della Fédération des sociétés féminines sportives de France: da quel momento si impegnò per lo sviluppo dello sport femminile e la sua istituzionalizzazione a livello internazionale.

I «ruggenti» anni ‘20 furono caratterizzati da spinte contrastanti. La smobilitazione e il ritorno degli uomini nelle fabbriche confinarono nuovamente le donne nel classico ruolo di mogli, madri e casalinghe. Al contrario, l’affermarsi della moda à la garçonne, resa popolare dagli abiti disegnati da Coco Chanel, dal successo dell’attrice Joan Crawford e dai romanzi di Francis Scott Fitzgerald, favorì l’emergere di un nuovo tipo di donna, per la quale cadevano le logore prescrizioni sul tipo di comportamento da tenere in pubblico e i tabù che vietavano di uscire senza accompagnatore, bere alcoolici o fumare, e di indulgere in rapporti sessuali prematrimoniali. In questo contesto, lo sport divenne un ovvio terreno di battaglia.

Chi era allarmato dai citati rivolgimenti del costume, vedeva nell’atletismo un ulteriore segno di degenerazione: lo sport originava sospetti di androginia e di inversione delle convenzioni di genere, pertanto le ragazze dovevano essere relegate alle sole discipline (tennis, scherma, nuoto, vela) che non mettessero a repentaglio le facoltà riproduttive con pericolosi urti, scosse e sussulti.

Di fronte a queste resistenze, Milliat adottò una condotta moderata, tanto che a lungo la sua condotta è stata interpretata alla luce della presunta incompatibilità fra sport e femminismo. Nell’aprile 1921, Milliat varò i primi Giochi femminili internazionali, che si tennero a Montecarlo. Alla fine dello stesso anno, fondò la Federazione Internazionale degli Sport Femminili, nella quale pretese che tutte le cariche fossero occupate da donne, secondo uno dei principi fondanti il femminismo di allora.

Nell’agosto 1922, organizzò a Parigi le prime Olimpiadi femminili. Dopo che il CIO ebbe contestato l’appropriazione del nome, la seconda edizione di Goteborg nel 1926 fu ribattezzata «Giochi mondiali femminili». Milliat acconsentì di buon grado perché il suo scopo non era quello di dar vita a un circuito olimpico parallelo, ma aumentare la partecipazione delle donne ai Giochi ufficiali. Una terza edizione si svolse a Praga nel 1930 e l’ultima a Londra quattro anni dopo, con sempre maggiori adesioni. Intanto, l’obiettivo di Milliat era stato raggiunto e a partire dalle Olimpiadi del 1928 il programma dell’atletica leggera – da sempre la regina dei «cinque cerchi» – era stato aperto alle ragazze, benché con un programma ridotto.

A 100 anni dai fatti, gli storici si interrogano ancora sull’effettivo contributo di Milliat alla causa della parità di genere. Milliat non respingeva il sostegno maschile alle sue organizzazioni, né l’appoggio di leader conservatori favorevoli alla causa. Allo stesso modo, accettò di adattare le discipline sportive se praticate dalle donne e di sorvegliare gli abiti da loro indossati in gara, presentando al contempo l’attività atletica come un atto patriottico con cui le donne concorrevano al recupero della «razza francese» e aderivano alla politica pro-natalista varata da governi inquietati dall’emorragia di vite e dal calo delle nascite provocato dalla Grande guerra.

Questo approccio pragmatico e rassicurante, opportunista e troppo accomodante secondo alcuni, era peraltro bilanciato dalla risolutezza con cui perseguiva l’uguaglianza di genere e il miglioramento della condizione delle donne attraverso lo sport. Sulla stampa femminista, inoltre, Milliat non esitò a prendere una netta posizione a favore della lotta delle suffragette, individuando nel diritto di voto il cuneo che poteva incrinare il patriarcato e il dominio maschile nella società.

In sintesi, l’operato e la figura di Alice Milliat possono essere collocati nella categoria del «femminismo d’azione», un concetto che arruolava fra le femministe de facto coloro che, invadendo spazi tradizionalmente riservati agli uomini, imprimevano al proprio operato un carattere intrinsecamente emancipatorio.