Quali rischi bisogna correre per una vita degna di essere vissuta? È questa la domanda che ci consegna Los delincuentes di Rodrigo Moreno, presentato nella sezione Un certain regard. Morán decide di rubare, dalla banca in cui lavora come impiegato da anni, l’ammontare di denaro che equivale al suo stipendio fino alla pensione. Coinvolge nel piano anche il riluttante collega Román. In questa che potrebbe sembrare la trama di un thriller, si fa strada man mano la scoperta del piacere che la quotidianità lavorativa soffocava. E il piacere è anche la cifra del regista e sceneggiatore argentino, per la prima volta a Cannes, che gratifica lo spettatore con piccole e improvvise epifanie. «Sono un cineasta cinefilo, ma non cerebrale. Seguo l’intuito e il senso del gioco. Gli ultimi film li ho realizzati da solo, con una piccolissima troupe. Volevo rivendicare anche questo: un cinema fatto a mano, liberatorio».

C’è una lunga tradizione di film sulle rapine in banca, ma in «Los delincuentes» l’aspetto esistenziale è preminente. Come ti sei rapportato al genere?

Mi interessa lavorare con gli elementi del genere per deformarli. L’inizio di questo film è legato a Appena un delinquente, lavoro del ’49 del regista argentino Hugo Fregonese che ha avuto molto successo da noi. Da lì ho mutuato la premessa, ma l’obiettivo del personaggio del film di Fregonese non è tanto smettere di lavorare quanto fare una vita lussuosa. Volevo proporre una rilettura oggi, in cui il vero lusso è non dover dipendere da qualcuno, non fare una vita da schiavo, anche se modesta. Già questa idea aveva una sua carica esistenziale intrinseca.

Qual è il senso politico del film?

C’è una prima lettura molto evidente: il lavoro è un’alienazione da cui bisogna liberarsi. Ma io credo che la vera posizione politica del film sia nella sua forma, oggi c’è un totale dominio del realismo come forma di rappresentazione, una completa rinuncia al linguaggio cinematografico che è diventato invertebrato, senza verbo. Per me il male non è iniziato con Netflix ma prima, con i fratelli Dardenne e la loro scelta di girare con la macchina intorno ai propri personaggi dimenticando gli elementi fondamentali del cinema: dissolvenza, taglio, split screen, musica… Non voglio attaccare loro personalmente, sono pensionati belgi, gente per bene, ma il problema sono le conseguenze di tutto ciò.

A proposito di musica, cosa ti ha spinto a scegliere Astor Piazzolla?

Durante il montaggio, che ho fatto da solo, mi chiedevo sempre se creare una musica originale o adattare del materiale preesistente. Andando avanti col lavoro sentivo il bisogno della presenza dell’oboe e sono poi incappato in questo inedito di Piazzolla, una sinfonia per oboe senza fisarmonica, registrata da un’orchestra rumena. Un piccolo gioiello con cui ho iniziato a giocare, ricollegandolo al tema di Piazzolla che già avevo in mente. Il film è molto legato a Buenos Aires e doveva restituire il clima della città, ma anche il cinema argentino degli anni ’70 e ’80, con quella musica è stato un matrimonio perfetto.