All’ora in cui abbiamo chiuso il giornale ieri sera gli occhi di 80 milioni di congolesi e delle cancellerie diplomatiche di mezzo mondo erano puntati sul centralissimo Boulevard 30 Giugno di Kinshasa, dove ha sede la Commissione elettorale nazionale indipendente (Ceni) della Repubblica democratica del Congo. Sotto alta pressione internazionale (l’ultima strigliata, ieri, è arrivata dal presidente sudafricano Ramaphosa) i 13 membri che ne fanno parte si erano chiusi oltre 24 ore prima in una forse definitiva riunione plenaria da cui far uscire finalmente i risultati di un voto altrettanto tribolato, che si era infine svolto in buona parte del paese lo scorso 30 dicembre.

Al termine di una giornata in cui l’attesa, le dichiarazioni non proprio serene delle forze in campo e il dispiegamento sempre più massiccio di reparti anti sommossa nelle strade hanno fatto schizzare pericolosamente in alto la tensione, i giornalisti sono stati convocati nella notte.

Si tratta di risultati comunque non definitivi, perché nel turbolento Nord-Kivu e in diversi altri stati il co0nteggio è ancora in corso. E perché in altre tre regioni si voterà solo a marzo. Non mancano inoltre le contestazioni e le denunce di irregolarità. Ma le opposizioni, con buona parte della società civile e delle organizzazioni religiose, a partire dalla principale piattaforma protestante del paese, la Chiesa di Cristo in Congo, non hanno dubbi: se qualcuno che ha perso le presidenziali questi è Emmanuel Ramazani Shadary, delfino ed ex ministro dell’Interno del presidente uscente Joseph Kabila, da 18 anni al potere. Il vincitore di conseguenza sarebbe uno tra Martin Fayulu e Félix Tshisekedi, i due sfidanti più accreditati.

Il timore diffuso anche tra le ong e i movimenti di cittadinanza attiva come Lutte pour le changement (Lucha), che ancora ieri pomeriggio invitava a «mantenere alta la vigilanza e tenersi pronti a scendere in massa nelle strade», è la comunicazione di un risultato «che non corrisponde alla verità delle urne».