Aldo Moro nel 1962 ebbe cura di soffermarsi sulla natura di quelle fragilità, tanto storicamente già emerse quanto potenzialmente emergenti, presenti nella struttura della giovane democrazia italiana all’alba degli anni Sessanta. Ammonendo i democratici cristiani a osservare le più attente «vigilanze e resistenze» contro il rischio di involuzione del sistema democratico della Repubblica, Moro disegnò un profilo identitario complesso e inquieto dell’estrema destra nazionale, specificandone una profondità di radici; un peso economico-sociale; una misura storico-politica e una estensione nella società italiana molto più diffusa di quello che lo stesso Parlamento fosse numericamente in grado di rappresentare: «L’entità di questo rischio per le istituzioni non si computa né in voti né in seggi parlamentari (…) esso non risiede intero, pur nell’innegabile riferimento ideale e storico che esso fa al fascismo, nel Msi. Sappiamo bene che (…) la radice del totalitarismo fascista affonda nel corpo sociale della nazione, là dove sono privilegi che non vogliono cedere il passo alla giustizia (…) là dove sono angustie mentali, egoismi e chiusure, là dove si teme la libertà (…) là dove ci si affida incautamente alla illusoria efficacia risolutrice della forza».

IL PAESE SI TROVAVA in un significativo momento di transizione. Di lì a poco lo stesso Moro avrebbe guidato la formazione del primo governo di centro-sinistra, con la partecipazione diretta del Partito socialista italiano (Psi), della storia della Repubblica. Appena due anni prima, nel giugno-luglio 1960, si era consumata, nelle piazze di tutta Italia e in Parlamento, la crisi del governo presieduto dall’esponente democristiano Ferdinando Tambroni sostenuto in maniera decisiva dai voti del partito neofascista del Movimento sociale italiano. Un esecutivo che rappresentò, affermerà Moro nel «memoriale» scritto nel 1978 durante i giorni del suo rapimento ad opera delle Brigate Rosse, «il fatto più grave e minaccioso per le istituzioni intervenuto in quell’epoca». Quale percorso aveva seguito la democrazia italiana per giungere al punto, ad appena quindici anni dalla fine della Seconda guerra mondiale, di reimmettere uomini politici provenienti dal regime fascista e dall’esperienza collaborazionista della Repubblica sociale al vertice della Repubblica nata dalla Resistenza? Quale fu la traiettoria politica del Msi? Ovvero di un partito che, fondato il 26 dicembre 1946 in controtendenza storica rispetto ai processi in atto in Italia e ad essi apertamente ostile ed estraneo (l’uscita dalla guerra fascista e il difficile avvio della ricostruzione; l’elezione dell’Assemblea costituente; la nascita della Repubblica), nel breve volgere di tre lustri si ritrovò dalla clandestinità alle soglie del governo nazionale? La sua nascita, il suo ruolo e la sua funzione nel sistema politico-sociale italiano non furono limitati a semplice ridotta nostalgica, come la esigua delegazione parlamentare lasciava immaginare (nella I legislatura appena 1 senatore e 6 deputati).

IL MSI RAPPRESENTÒ: il segno dei mancati conti dell’Italia con la storia del fascismo, nella misura di un rimosso nazionale e collettivo che eluse l’assunzione di responsabilità rispetto alla pesante eredità del regime di Mussolini; la cifra della profondità delle radici fasciste nella società italiana, sopratutto nelle sue classi dirigenti e nei ceti sociali (piccola e media borghesia) che più erano stati organici alla dittatura e che Moro indicava nel 1962 come ambito più esteso della destra reazionaria nel Paese; il partito «reietto» e di minoranza su cui l’opinione pubblica poteva rivolgere i propri strali come forma di redenzione della nazione tutta per il consenso e il sostegno dato al regime di Mussolini durante il ventennio della dittatura. Ricorderà, anni dopo, lo scrittore ex saloino Carlo Mazzantini: «Io ho partecipato alla formazione del Msi come molti dei miei ex camerati, ho contribuito alla costituzione di quella sorta di ghetto nel quale dovemmo rifugiarci in quanto diventati le teste di turco sulle quali la nazione scaricava il suo senso di colpa. L’Msi (…) ha una funzione direi terapeutica (…) la funzione della sentina, nella quale gli italiani hanno potuto scaricare un sentimento di colpevolezza. Gli italiani avevano seguito il fascismo, se ne erano liberati, ma avevano bisogno di qualcuno che se ne assumesse le colpe. Allora ci fu questa rimozione, questo scarico su quella minoranza che lì si era barricata e lì aveva conservato le vecchie bandiere. I fascisti erano quelli».
Il partito missino è stato il «convitato di pietra» della nascita della Repubblica democratica. La sua stessa esistenza ha posto nel corso dei decenni questioni di rilievo rispetto alla natura, al processo storico di maturazione democratico-costituzionale del Paese e al suo profilo identitario antifascista entro cui si incuneò fin dall’inizio il baco neofascista: «Chiara fu la nostra origine e intonata a quella chiarezza è stata la nostra politica. La nascita del Msi non fu soltanto un atto di fede verso l’avvenire ma fu anche un fatto razionale (…) la politica dell’inserimento non cominciò con Pella, con Zoli, con Segni, con Tambroni, ma con la nascita stessa del Msi (…) essa era la sola che non rimanendo nello sterile cerchio di una rievocazione storica consentiva di proporre nostre idee, nostri postulati, nostre soluzioni (…) noi siamo passati ad un’intransigente opposizione non al sistema ma nel sistema».

GIORGIO ALMIRANTE e Giuseppe Umberto (Pino) Rauti hanno rappresentato, in modi e tempi diversi, due delle principali anime della «comunità» degli «esuli in patria». Insieme ai due fondatori del Msi, Pino Romualdi (capo dei Fasci di Azione Rivoluzionaria, Far) e Arturo Michelini, hanno interpretato e risignificato la presenza dei «fascisti in democrazia» in ragione del fatto che la loro traiettoria biografico-politica ha finito (anche quando si collocarono all’opposizione delle segreterie «moderate» di Augusto De Marsanich e Michelini) per coincidere con l’azione di vertice del Msi per l’intera esistenza del partito.
I due dioscuri del neofascismo attraversarono la propria esperienza politica non sempre in sintonia, alternando momenti di stretta convergenza con fasi di aperto conflitto. Tuttavia il loro lascito esprime ancora oggi (più di quello di qualunque altro storico dirigente missino) le profonde radici culturali e identitarie nonché il carattere cui si ispira il postfascismo contemporaneo. Almirante fu il primo segretario del Msi, in quella fase (1946-1950) di riemersione dal gorgo della storia che fu per gli ex saloini il secondo dopoguerra, e tornò alla guida del partito nel giugno 1969 dopo la morte di Michelini, restandovi fino al 1987, quando lasciò le redini missine al suo “delfino” Gianfranco Fini.

IL GIOVANE RAUTI fu seguace del filosofo tradizionalista e filonazista Julius Evola, «un singolare pensatore di nobile origine siciliana, la cui dottrina costituisce uno dei sistemi più radicalmente antiegualitari, antiliberali, antidemocratici e antipopolari del XX secolo». Su queste posizioni, e in concomitanza con la parallela militanza nei gruppi eversivi dei Far che lo porterà in carcere nel 1951, Rauti appoggiò Almirante nella sua prima direzione del Msi per poi uscire dal partito, dopo l’ascesa al vertice di De Marsanich e Michelini, fondando nel 1956 il gruppo Ordine Nuovo che fino ad allora si era configurato solo come «centro studi». Farà rientro alla casa madre nel 1969 dopo il ritorno di Almirante alla guida missina, condividendo e alimentando il nuovo corso della politica del «doppiopetto» (subendo un nuovo arresto nel 1972 nell’ambito dell’inchiesta per la strage di piazza Fontana) che caratterizzerà la linea dei neofascisti negli anni Settanta.
Nel 1976, trentennale della fondazione del Msi, la scissione di Democrazia nazionale dal partito segnerà un passaggio periodizzante per la traiettoria politica del neofascismo. Proprio a partire dalla fine di quel decennio, in modo più accentuato dal 1977, sarà ancora Rauti a reinterpretare, stavolta in chiave polemica con Almirante, la nuova destra giovanile avviando un processo di lunga durata che lo porterà infine, seppur brevemente, a conquistare la segreteria del Msi nel 1990 dopo la scomparsa di Almirante. Sarà l’ultimo sussulto della radice biografica saloina del partito prima del definitivo e conflittuale passaggio di consegne, con il ritorno di Fini alla segreteria/, lo scioglimento del Msi in Alleanza nazionale nel 1994 e la nuova scissione rautiana che diede vita al partito Fiamma tricolore.

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