C’è sempre una catastrofe all’origine dei nostri mondi sommersi. Nei racconti del diluvio universale la terra diventa un immenso fondale, ed è un cataclisma di forti scuotimenti e inondazioni a consegnare l’isola di Atlantide all’oscurità degli abissi «nello spazio di un giorno e di una notte», scrive il Platone dei Dialoghi. Oggi lo chiameremmo «tsunami», un evento oceanico, una catena di onde sempre più massicce che si propaga fino alle coste e non risparmia nessuno. Ma non per forza, nell’immaginario come nella storia, è un evento repentino e improvviso a ricondurre smanie di grandezza e architetture terrestri al liquido amniotico che le ha viste comparire dal niente.

A VOLTE, SI TRATTA di un movimento impercettibile e continuo, qualcosa che già ci definisce nostro malgrado. E anche se siamo abituati a giudicare le cose per come le conosciamo al di sopra del livello del mare, non tutto quello che torna sott’acqua smette necessariamente di esistere. D’altra parte ci troviamo su un pianeta azzurro e vivo, la geografia ci parla di un unico e compatto supercontinente a cui sono serviti milioni di anni per scomporsi in frammenti.

Alcuni studiosi ci raccontano gli oceani come giganteschi blocchi d’acqua rimasti intrappolati sotto la crosta terrestre, saliti in superficie a mano a mano mentre gli elementi più pesanti sprofondavano. Altri raccontano di una tempesta di comete di ghiaccio che bombardarono la terra per un miliardo di anni, portando l’acqua dolce nei nostri crateri direttamente dallo spazio. In ogni caso, quello che conta è che niente è rimasto mai uguale. Eppure una trama sottile continua a legare le cose.

ALL’INIZIO delle nostre più remote sparizioni i geologi intravedono la fine delle grandi glaciazioni; nella nostra atmosfera presente, ci dicono gli esperti del clima, ci sono tutti i presupposti per le nostre scomparse future. Lo mostra bene il video collage diffuso alla fine del 2019 dal glaciologo Mark Fahnestock, che ricompone in un time-lapse di paesaggi satellitari e irrequieti il moto degli ultimi ghiacci che si vanno sciogliendo in Alaska. Oggi sappiamo che circa dodicimila anni fa una striscia di terra collegava l’Inghilterra all’Europa, un’immagine che potrebbe quantomeno far sorridere.

Nel suo libro Time Song, finalista al Wainwright Prize nel 2019, tra impronte fossili rimaste immobili nel fango di un estuario e piccole conchiglie di due milioni di anni, la scrittrice inglese Julia Blackburn si avventura sui sentieri di una ricerca appassionata e tortuosa intorno a quella che fino a ottomila anni fa doveva presentarsi come una landa fertile e popolata.

GLI ARCHEOLOGI la chiamano «Doggerland», dai banchi di sabbia (in inglese dogger bank) che ne costituiscono il residuo principale. Il National Geographic ne descrive l’antico paesaggio come un susseguirsi di dolci colline, boschi, paludi e lagune abitate da popoli mesolitici le cui tracce sono rimaste incastonate nei fondali del Mare del Nord. Ma non si tratta dell’unico esempio. L’ultima casa di Holland – l’isola di otto chilometri di fronte alla Chesapeake Bay, in Virginia, un tempo abitata da una comunità di pescatori e oggi completamente coperta dall’acqua – è crollata nel 2010.

Nel cortometraggio The Ballad of Holland Island House (finalista allo Student Academy Award, al primo posto per il Greenpeace Postcards from Climate Change, miglior cortometraggio d’animazione al Woods Hole Film Festival), l’artista di Baltimora Lynn Tomlinson usa una tecnica di animazione a base di pittura e argilla per rendere più nitido di fronte alle conseguenze del riscaldamento globale il racconto di questa scomparsa.

FU UN PROGRESSIVO abbassarsi della costa dovuto probabilmente alle attività sismiche e vulcaniche, invece, a far sì che Baia, frazione di Bacoli vicino Pozzuoli, in provincia di Napoli, finisse sotto il livello del mare nel corso dei secoli. Nelle giornate di sole, quando la luce è perpendicolare alla superficie dell’acqua, le riprese dall’alto mostrano ancora bene quella che era la città e che oggi si trova tra i due e i sedici metri di profondità. In un documentario trasmesso a settembre, la Bbc l’ha definita «la Las Vegas dell’impero romano», un intreccio di ville maestose e complessi termali, piscine e peschiere per l’allevamento di murene, dove la gioventù aristocratica arrivava per villeggiare facendo dell’ozio uno stile di vita.

MAHABALIPURAM, India. Port Royal, Giamaica. Pavlopetri, Grecia. L’elenco potrebbe continuare, e sono diverse le latitudini a cui è possibile indossare una muta e attraversare la storia nella parentesi di un’immersione. Ma se si pensa a come gli archeologi stiano ancora discutendo sull’origine delle rovine di un’ipotetica città inghiottita dal Pacifico davanti alle coste di Yonaguni, in Giappone, da alcuni considerate un residuo della leggendaria civiltà di Mu; o alla statua di Hapy – oltre cinque metri e diverse tonnellate, una raffigurazione divina dell’alluvione del Nilo riemersa dalla baia di Abukir, in corrispondenza della vecchia Heracleion, nei pressi di Alessandria d’Egitto, insieme a un re e a una regina di granito e a una costellazione di sarcofagi animali – si capisce come a mettere la testa sott’acqua, mitologie del passato e angosce sul futuro possano dissolversi fino persino a coincidere.

A DISTANZA DI MILLENNI, quello che resta attorno ai movimenti rallentati di un corpo che scende, si ferma a guardare, è una strana quiete, un’atmosfera rarefatta di fosforescenze improvvise, esserini dai tentacoli di vetro, microrganismi avviluppati su sporgenze trasfigurate dal tempo. Il silenzio che ne deriva apre il varco a una dimensione distinta, con delle regole proprie, una logica inversa.

Senza scomodare le Ventimila leghe di Verne o la città di R’lyeh descritta da Lovecraft ne I miti di Cthulhu, la sensazione è di trovarsi al cospetto di una geometria ulteriore. Proprio come se il pelo dell’acqua fosse orizzonte di un universo parallelo e fantastico. Forse simile a quello che la scrittrice Margaret Cavendish nel 1666 intitolava Il mondo sfavillante, o alla Moriana in cui si imbatte il Marco Polo de Le città invisibili di Calvino, con le sue «porte d’alabastro trasparenti alla luce del sole, le colonne di corallo che sostengono i frontoni» delle ville «tutte di vetro come acquari dove nuotano le ombre delle danzatrici dalle squame argentate sotto i lampadari a forma di medusa».

Qualcosa, che per estensione potrebbe ricordare il grande schermo circolare da poco installato nelle piazze di Vilnius, in Lituania, e Lublino, in Polonia, per trasmettere in diretta le immagini reciproche di chi ci cammina davanti. Un ponte immateriale tra città rimaste separate, come dal 2020 è capitato a tante. Chissà che ne sarà nei prossimi anni, come sapremo separarci da quello che eravamo.

Nel 2050 – annunciava poco prima della pandemia una mappa pubblicata su Nature dal gruppo di ricerca Climate Central – le coste di Londra, Venezia, Jakarta, New Orleans, Mumbai, Shangai, Bangkok finiranno sott’acqua. Mentre le Sundarbans lentamente sprofondano nel delta del Gange, lo scenario scongiurato dagli accordi di Parigi sul clima assomiglia ogni giorno di più al nostro presente. Ma «il mondo piange solo ciò che conosce e non immagina cosa abbia perduto», scriveva Judith Schalansky nel suo Inventario di qualche anno fa. Così, ogni volta che l’ombra si stacca dal fondo, a mano a mano che il corpo risale, la superficie dell’acqua diventa uno specchio-soffitto. E poco importa, se un atollo chiamato Tuanaki sia stato inghiottito davvero da un maremoto sparendo da tutte le mappe o sia esistito per la durata di un sogno.
Davanti al rovescio di tutte le cose, riflessi al contrario, possiamo solo ricominciare a nuotare.