Alle sei di sera di martedì 4 giugno, quando la notizia che il premier Narendra Modi ha vinto per la terza volta consecutiva il suo seggio a Varanasi è ufficiale, per le strade della città più sacra dell’induismo c’è di tutto, tranne l’entusiasmo.

È un martedì come un altro: si strombazza sulle moto e sui riksha, si borbotta davanti a un chai, si fa lo struscio sui ghat, gli scaloni che da secoli fanno scivolare la città vecchia sulle rive del Gange. Per settimane la città vecchia è stata in fermento, tappezzata di adesivi, bandiere e striscioni che annunciavano un esito nazionale ampiamente confermato dagli exit poll usciti lunedì 3 giugno. Il motto era «400 paar», cioè superare i 400, inteso come i seggi che il Bharatiya Janata Party (Bjp) di Narendra Modi e i suoi alleati si sarebbero portati a casa in una tornata elettorale segnata. E invece no.

La redazione consiglia:
Al via la maratona elettorale verso la «New India» dove Modi non ha rivali

Quando martedì è iniziato lo spoglio dei voti, al termine di un processo elettorale suddiviso in sette «voting day» spalmati su 44 giorni, il divario tra la realtà della democrazia indiana e la propaganda governativa ha iniziato ad allargarsi a dismisura.

L’IMMAGINE simbolo della debacle del Bjp è andata in onda intorno all’ora di pranzo sul canale all news India Today, quando Pradeep Gupta di Axis My India – tra le società di ricerca di mercato più autorevoli del panorama indiano – scoppia in lacrime a favore di telecamera, consolato dai conduttori della maratona elettorale più seguita: solo un giorno prima aveva predetto una vittoria schiacciante del Bjp e un numero di seggi di coalizione tra 361 e 401.

Sotto Gupta in lacrime, la grafica di India Today segnava un ben più misero 296 seggi, inchiodando i sondaggisti a un abbaglio macroscopico e vergognoso. Mentre scriviamo il pallottoliere elettorale si sta componendo con i dati definitivi della conta: la National Democratic Alliance (Nda), la coalizione del Bjp, dovrebbe aver vinto 290 seggi, una cinquantina in meno rispetto al 2019; la Indian National Developmental Inclusive Alliance (India), la coalizione delle opposizioni guidata dall’Indian National Congress (Inc) della famiglia Gandhi, insegue a 235, guadagnando più di 100 seggi in cinque anni.

Sono numeri che poco prima delle nove di sera permettono a Modi di salire sul palco del quartier generale del Bjp a Delhi e pronunciare a reti unificate il suo discorso della vittoria: il Bjp per la terza volta consecutiva ha vinto le elezioni, è il primo partito indiano, il popolo è con me, formeremo un nuovo governo e proseguiremo nel progetto di una «Viksit Bharat» per tutte e tutti, cioè un’India Avanzata per tutti.

Quando Modi dice che per la prima volta dal 1962 un governo indiano viene riconfermato per la terza volta consecutiva – record che deteneva il padre della patria Jawaharlal Nehru – la folla esplode nel classico coro «Modi! Modi! Modi!». Ma l’entusiasmo si ferma ai confini della capitale: nel resto del Paese il bilancio politico e aritmetico è oggettivamente disastroso.

Per la prima volta dal 2014, il Bjp non ha da solo i numeri per formare un governo e dovrà affidarsi alla benevolenza di alleati che in passato si sono dimostrati tutt’altro che fedeli: due campioni del cambio casacca come Nitish Kumar in Bihar e Chandrtababu Naidu in Andhra Pradesh, che da ieri sanno di essere i veri «kingmaker» di queste elezioni e nei prossimi giorni con ogni probabilità si metteranno sul mercato post-elettorale per decidere se stare di qui, col Bjp, o di là, con il Congress.

LE OPPOSIZIONI hanno registrato un risultato eccezionale, portando a segno dei colpi simbolicamente durissimi soprattutto in Uttar Pradesh, lo stato più popoloso e povero del paese considerato una roccaforte inespugnabile della destra induista.

Il Samajwadi Party (Sp), alleato del Congress e partito di riferimento per le caste basse, in Uttar Pradesh ha vinto più seggi del Bjp e ha espugnato addirittura la circoscrizione di Ayodhya, la cittadina dove a gennaio Modi aveva aperto la sua campagna elettorale inaugurando un grande tempio dedicato al dio Ram, costruito sulle macerie di una moschea rasa al suolo dagli estremisti hindu nel 1992.

Ayodhya doveva essere il simbolo dello strapotere dell’ultrainduismo di governo, il fiore all’occhiello di un progetto politico che il Bjp in questa campagna non ha più nascosto dietro al paravento del progresso e della crescita economica, ma ha rivendicato con forza per polarizzare l’elettorato hindu: votateci per un’India degli hindu, contro i musulmani e le opposizioni che vogliono togliervi soldi, tradizioni, dignità e orgoglio.

La redazione consiglia:
L’India laica si è fermata a Ram Mandir

Dati alla mano, questa strategia ha ottenuto il risultato opposto, spingendo milioni di persone verso le opposizioni unite contro Modi e a difesa della costituzione, a rischio modifiche sostanziali se il Bjp avesse raggiunto l’obiettivo dei 400 seggi. Così, con una mobilitazione dal basso capillare e non registrata a sufficienza dai media mainstream indiani, decine di milioni di persone hanno dato nuova fiducia a un partito del Congress che sembra aver trovato la ricetta per uscire da una crisi dei consensi lunga dieci anni.

LE GIGANTESCHE mobilitazioni popolari guidate nei mesi scorsi da Rahul Gandhi hanno funzionato. Gandhi ha marciato per tutto il paese parlando di ingiustizia, disoccupazione, rapporti torbidi tra governo e imprenditoria, discriminazione castale e religiosa. E ha ritrovato il «suo popolo»: ha stravinto nei due seggi in cui si è candidato e il suo partito oggi non solo controlla 100 seggi, ma è a capo di una coalizione che nei prossimi giorni proverà la spallata.

I piccoli partiti possono fare la differenza e i telefoni sono bollenti. Da oggi partono le trattative su tutto l’arco parlamentare, alla ricerca di una maggioranza post-elettorale che potrebbe riservare molte sorprese.

Ci saranno colpi di scena e colpi bassi, ma la notizia è che se l’India di Modi somiglia sempre meno a una democrazia, l’elettorato indiano ha dimostrato al mondo di cosa è capace per proteggere un esperimento unico nel suo genere. Nessuno lo sa come si fa a governare democraticamente un paese da 1,4 miliardi di persone. Ma da ieri sappiamo che le persone che hanno a cuore la democrazia indiana stanno continuando a cercarlo.