Lunedì davanti a qualche migliaio di persone il primo ministro indiano Narendra Modi ha inaugurato ad Ayodhya, nello stato dell’Uttar Pradesh, il complesso templare del Ram Mandir. Si tratta di un imponente tempio induista dedicato al principe Ram, una delle incarnazioni del dio Vishnu. Secondo un’interpretazione del Ramayana – poema epico che racconta le gesta del principe – Ram non solo sarebbe veramente esistito, ma sarebbe nato migliaia di anni fa proprio nel luogo dove oggi sorge questo tempio costato qualcosa come tre miliardi di dollari. Nei piani del governo Modi, il tempio dovrebbe trasformare la «piccola Ayodhya» – poco più di cinquantamila abitanti – in una specie di Città del Vaticano dell’induismo.

Estremisti indù alla moschea di Ayodhya nel 1992. Foto Ap

LA FONDAZIONE governativa che gestisce il complesso, in collaborazione col governo dell’Uttar Pradesh e quello federale, ha realizzato anche una nuova stazione del treno e addirittura un aeroporto internazionale, prevedendo che nei prossimi cinque anni la città diventerà meta di pellegrinaggio per almeno centomila fedeli al giorno.
Ma il valore simbolico di questa giornata trascende ampiamente la dimensione religiosa ed è un’operazione che per molti osservatori sancisce definitivamente la fine dell’India laica e multiculturale immaginata dai padri della patria a metà del secolo scorso. E, come ha detto lo stesso Modi dal palco, segna l’inizio di «una nuova era». In realtà, l’inizio di questa nuova era è già nei libri di storia e risale alla fine degli anni Ottanta, quando il Bharatiya Janata Party (Bjp), il partito nazionalista induista guidato oggi da Narendra Modi, era una giovane formazione politica in cerca di affermazione.

ERA STATA FONDATA nel 1980 come un partito-contenitore del suprematismo induista teorizzato agli inizi del ventesimo secolo da formazioni paramilitari estremiste come la Rashtriya Swayamsevak Sangh (Rss): l’«organizzazione nazionale dei volontari» che prima dell’indipendenza indiana immaginava uno stato-nazione a trazione induista. Un’India degli induisti, insomma, dove tutte le altre minoranze religiose o dovevano accettare uno status di subordinazione, oppure era meglio emigrassero altrove.

Nel 1989 le sigle dell’estremismo induista assieme al neonato Bjp organizzarono una mobilitazione in tutta l’India del Nord per galvanizzare il sentimento antimusulmano di una parte dell’elettorato induista e concentrarlo attorno al tema del tempio di Ram. Iniziarono a raccontare che la Babri Masjid di Ayodhya – la moschea eretta nel sedicesimo secolo durante la dominazione musulmana della dinastia Moghul – era stata costruita sulle macerie di un tempio induista dedicato proprio al principe Ram. E che ora, quattro secoli dopo, era arrivato il momento della riscossa: bisognava andare ad Ayodhya, distruggere la moschea, e al suo posto ricostruire il grande tempio proprio dove la leggenda dice fosse nato il piccolo principino incarnazione di Vishnu. Prove storiche o archeologiche a sostegno di questa tesi non ce n’erano e non ce ne sono, ma per chi ci crede l’interpretazione opinabile di un poema epico bastava ed avanzava.

Nel 1990, dopo un mese di comizi in tutto l’Uttar Pradesh, migliaia di fedeli provano a raggiungere la moschea, ma vengono fermati dalla polizia locale. L’anno dopo, il Bjp stravince le elezioni in Uttar Pradesh, e nel 1992 torna di nuovo ad Ayodhya con centinaia di migliaia di «volontari». Dicono di voler solo manifestare pacificamente fuori dalla moschea, e ricevono tutti i permessi del caso.

SOLO CHE IL 6 dicembre del 1992 l’iniziativa si trasforma in un assalto al complesso della moschea. La polizia non muove un dito e nel giro di mezza giornata la Babri Masjid viene rasa al suolo da cinquemila estremisti. Subito dopo, i violenti si spostano verso i quartieri a maggioranza musulmana di Ayodhya e, a macchia di leopardo, i pogrom si estendono presto in tutto il Paese. I morti saranno più di duemila, e altri duemila solo nella città di Bombay, dove le squadracce dell’estremismo induista locale mettono a ferro e fuoco gli insediamenti musulmani della megalopoli. Qualche mese dopo, nel marzo del 1993, il terrorismo islamico risponde alla mattanza piazzando tre ordigni nel cuore finanziario di Bombay: quasi duecento morti, più di 1400 feriti.

PASSANO gli anni e il ciclo di violenza tra le due comunità non si interrompe, mantenendo intatta la disparità numerica che fa di questo scontro una sfida aritmeticamente impari: gli induisti sono circa l’80% della popolazione indiana, i musulmani poco più del 13%. Nel 2002, nello Stato del Gujarat governato allora dalla stella nascente del Bjp Narendra Modi, un vagone del treno pieno di pellegrini induisti di ritorno proprio da Ayodhya viene dato alle fiamme. Tra le lamiere muoiono 57 persone. Immediatamente scatta la rappresaglia ultrainduista, che in tutto il Gujarat si abbatte sui quartieri abitati dai musulmani e per giorni, sotto gli occhi dell’amministrazione Modi e della polizia controllata dal suo governo, massacra migliaia di persone. Modi e il suo governo, accusati di connivenza coi violenti, saranno scagionati dai tribunali indiani.

DODICI ANNI dopo i massacri del Gujarat e 22 anni dopo la demolizione della Babri Masjid, l’inaugurazione del tempio di Ram ad Ayodhya di fatto segna il trionfo del suprematismo induista di governo. Sancito da due sentenze che tra il 2019 e il 2022 hanno decretato che la demolizione della moschea di Ayodhya è stata criminale ma non premeditata (e quindi tutti assolti) e che gli estremisti potevano costruire il tempio proprio lì dove volevano.

Sul palco di fronte al sancta sanctorum del tempio, davanti a una folla di fedeli e vip in visibilio, hanno sfilato tre uomini che incarnano la Nuova India nel segno del Bjp. Narendra Modi, l’uomo che ha detto di essere stato «scelto da dio» per officiare il rito di santificazione dell’idolo di Ram. Yogi Adityanath, il chief minister dell’Uttar Pradesh, monaco estremista che ha scalato l’organigramma del Bjp e che molti dicono sia l’erede politico di Modi. E Mohan Bhagwat, il capo della Rss, l’organizzazione paramilitare che da un secolo spinge per distruggere l’India laica e democratica e costruire un «Hindu Rashtra», una nazione induista, degli induisti, per gli induisti.

È UN QUADRETTO che nei prossimi mesi è pronto a sbancare le elezioni nazionali del Paese più popoloso del mondo, previste per questa primavera. E che non rappresenta il primato della religione induista sulla democrazia indiana, ma se possibile uno scenario ancora più funesto. È il nazionalismo ultrainduista che ha stravolto l’induismo, il culto di Ram e la tradizione religiosa pluralista dell’India indipendente. E che in attesa del responso delle urne, si candida a continuare la costruzione di una nuova India più autoritaria e minacciosa che mai.