L’assunto da cui parte la reporter e scrittrice brasiliana Eliane Brum per la sua ricognizione storica, geografica, e spirituale della Foresta Amazzonica – un oggetto del discorso solo appena più vasto delle ambizioni filosofiche dell’autrice – recita: «Qualsiasi giornalista che si senta un grande avventuriero è soltanto uno stupido». È quanto si legge a pagina 173 di Amazzonia Viaggio al centro del mondo, appena pubblicato da Sellerio nella traduzione a quattro mani di Vincenzo Barca e Giacomo Falconi (pp. 448, € 18,00). Il punto di vista di Brum non si rivela soltanto per negazione. Fin dall’incipit, il libro propone infatti al lettore una sorta di cambio di prospettiva: «Da quando mi sono trasferita in Amazzonia, il banzeiro è passato dal fiume a dentro di me. Non ho fegato, reni, stomaco come le altre persone. Ho il banzeiro. (…) Il mio sangue si è fatto acqua, e a volte sento un pesce solleticarmi il pancreas (….). L’Amazzonia non è un luogo in cui trasportiamo semplicemente il nostro corpo, (…) L’Amazzonia ci salta dentro». Insistendo sull’idea di una simbiosi, di una qualche forma di ibridazione naturale, Brum chiarisce di non volersi accontentare di proporre una immagine poetica, quanto piuttosto di provare a elaborare concretamente i termini di un nuovo modo di «pensarsi». Da tale animus discende un ecologismo che si premura di provocare apertamente il lettore, colpevole più che altro di essere un banale «bianco», o, anche peggio, «occidentale», epiteti che ricorrono più volte nel testo con disinvolta e generica violenza.

Mentre emerge una (illuminante) dissonanza tra la retorica ecologista dell’Occidente e le pratiche indigene di armonia e comunione con la foresta, tra le molte considerazioni che principiano sintatticamente e ideologicamente dalla prima persona singolare – ciò che si direbbe lontano anni luce da quelle martoriate culture indigene dalle quali Brum dichiara più volte di attingere il suo stesso élan vitale e professionale – si fanno strada non senza fatica interessanti considerazioni sugli scempi perpetrati dall’uomo a danno della biodiversità amazzonica – costruzioni di dighe mostruose, avvelenamento dei fiumi, deforestazione –, voluti o accettati in Brasile tanto dai governi di sinistra quanto da quello grottesco e effimero, recentemente archiviato, di ultradestra.

La parte di reportage – lavoro al quale Brum si consacra evidentemente malgré soi – è ricca di informazioni sorprendenti, e le ricerche di tipo giornalistico e storico compiute dalla autrice risultano ben più interessanti tanto del racconto dettagliato circa i suoi esotici cambi di residenza, quanto delle cupe petizioni di principio circa le metamorfosi del sé o la invocata, ancorché indeterminata, sparizione del sé, che pure a giudicare dal libro di Brum non sembra affatto imminente alle nostre latitudini.