Riccardo Cucchi è stato per anni radiocronista della nazionale di calcio e prima voce nello storico programma Tutto il calcio minuto per minuto di Rai Radio 1. Ad oggi è presidente della giuria del premio Sport e diritti umani promosso da Amnesty e Sport 4 Society, oltre che autore del libro Un altro calcio (edizioni People), entrato nella sestina del Premio Bancarella Sport 2024. Oltre il calcio, Cucchi ha commentato atletica leggera, canottaggio e scherma per otto edizioni dei Giochi Olimpici.

Il tuo rapporto con le Olimpiadi…
Le Olimpiadi sono state la colonna sonora della mia vita. A cominciare da quelle del ’60 che ho vissuto con gli occhi del bambino che ero. La magia di Roma imbandierata, il gigantesco pullulare di emozioni. Ricordo i pomeriggi trascorsi nel villaggio olimpico a caccia di autografi. Era un luogo aperto a tutti e passeggiando era possibile incontrare atleti di ogni paese del mondo. Conservo ancora una piccola bandiera olimpica ricca di nomi, alcuni indecifrabili. Il terrorismo non era comparso sulla scena mondiale e l’intera città era coinvolta in un evento epocale. Poi le otto Olimpiadi seguite da giornalista per la Rai, a partire da Los Angeles 1984. Di quella edizione ho un ricordo al quale sono molto affezionato: la medaglia d’oro dei fratelli Abbagnale. Quel 2 con nato a Castellammare di Stabia aveva sbaragliato tutti gli avversari, trascinato anche dal racconto epico di Giampiero Galeazzi. Era nella postazione televisiva collocata a pochi metri dalla mia. Nel microfono della radio, sotto le parole che sceglievo per descrivere la corsa vincente sulle acque di Lake Placid dell’armo italiano, era possibile percepire anche la voce stentorea del mitico bisteccone. Considero l’esperienza olimpica la più importante e formativa della mia vita di appassionato di sport e di radiocronista.

Le Olimpiadi nel tempo sono state palcoscenico di vicende politiche e sociali. Cosa può caratterizzare i prossimi Giochi?
Lo sport è una sorta di carta assorbente delle vicende e delle contraddizioni della società. Non ha fermato le guerre, anzi, dalle guerre lo sport è stato fermato. Per la prima volta però ci troviamo di fronte non ad una sola guerra, ma a tanti focolai di guerra presenti in più angoli del pianeta. C’è chi parla di «terza guerra mondiale diffusa». Le Olimpiadi questa volta non si sono fermate. Ma le conseguenze delle tensioni internazionali saranno visibili a Parigi. La Russia e la Bieloriussia sono state escluse dopo l’invasione dell’Ucraina. Una trentina di atleti dei due comitati olimpici saranno comunque presenti a titolo individuale, senza bandiere e senza effigi. E non potranno sfilare nella cerimonia inaugurale. Ci sarà anche una piccola rappresentanza della Palestina grazie all’invito del Cio. Ottantotto atleti palestinesi sono morti sotto le bombe. E certo non è stato possibile ai sopravvissuti partecipare alle gare di selezione previste per i giochi. Ha suscitato la reazione di Amnesty International la decisione del comitato olimpico francese di vietare in gara l’uso dell’hijab alle atlete transalpine. Amnesty parla di violazione di un diritto. Le atlete dovranno scegliere se gareggiare rinunciando alle loro convinzioni o rinunciare ai loro principi per gareggiare. Le contraddizioni del mondo, i temi irrisolti, saranno presenti anche nelle olimpiadi parigine.

Da Rio 2016 esiste il Refugee Olympic Team. Iniziativa lodevole, ma che rischia di essere retorica…
La retorica, nello sport, è sempre in agguato. Evitarla è però assolutamente necessario per non disperdere il profondo messaggio che lo sport è ancora in grado di diffondere.  Il Refugee Olympic Team è la risposta del Cio ad un fenomeno sempre più diffuso: la dispersione di esseri umani a causa di guerre e persecuzioni. Anche gli atleti ne sono inevitabilmente vittime. Sono donne e uomini ormai senza una bandiera e senza una terra, figlie e figli di una diaspora contemporanea. Credo sia assolutamente legittimo offrire loro la possibilità di competere. Sono anche convinto che di fronte alle loro storie, se debitamente raccontate, possa crescere la sensibilità di ciascuno di noi rispetto al tema dei diritti umani.

In Italia un’atleta figlio di genitori non italiani non ha cittadinanza se minorenne. Nel frattempo, la nostra atletica leggera ha dominato i recenti Europei…
Consentimi un parallelo calcistico: se Lamine Yamal, 17enne campione spagnolo che ha incantato il mondo, fosse nato in Italia non avrebbe potuto giocare gli Europei con la maglia azzurra. E’ un tema di grande rilevanza sociale, oltre che sportiva. Oggi un ragazzino nato nel nostro paese da genitori stranieri può essere tesserato per una società sportiva, dopo verifiche e controlli estenuanti per chiunque, se ha frequentato almeno un anno di scuola. Ma da minorenne non potrebbe mai indossare la maglia azzurra, anche se si rivelasse un fuoriclasse. Il passaporto italiano da noi per legge si ottiene dopo i 18 anni. Lo «ius soli sportivo» si configura, a mio parere, come un diritto. Ciò detto, la squadra italiana di atletica è frutto di un grande lavoro sul territorio, un lavoro insieme di integrazione e di crescita sportiva. Questi ragazzi sono italiani, si sentono italiani. E davvero crudele non riconoscere questa loro convinta identità.

Cosa ti aspetti dal torneo calcistico di Parigi?
Il mondo del calcio è in grande evoluzione. La sua diffusione capillare, planetaria, ha avvicinato al gioco schiere di ragazzi in ogni angolo del pianeta. Le differenze tecniche si sono livellate. Oggi non è necessario essere europei o sudamericani per vincere. L’Africa soprattutto, e l’Asia, possono essere competitive. Personalmente sono convinto che questo sia il secolo del calcio africano. Da lì arrivano tanti giovani affamati di calcio. Come storicamente succede al continente africano, il rischio più grande è che altri si approfittino del talento dei suoi giovani. Sogno un’Africa che sia capace di sviluppare il calcio sul suo suolo e non negli stadi europei. L’Europa non ha mai smarrito le sue tentazioni coloniali, anche nello sport.

Il calcio che racconti nel tuo libro è ancora rintracciabile nel nostro paese? È possibile trovare analoga umanità nelle prossime Olimpiadi?
Il calcio è un grande fenomeno sociale, un grande fenomeno popolare. Le sue radici sono lì. Ce lo dicono 167 anni di storia. È un’illusione che i soldi possano sostituire i valori fondanti del calcio che è e rimane uno sport. Non uno spettacolo o un banale intrattenimento. I soldi non bastano per farlo vivere come fenomeno di massa. Ci stanno provando i sauditi che comprano calciatori come se fossero figurine. Ma non ci riescono. So che negli stadi italiani ci sono incaricati degli emiri che studiano cosa succede nelle curve. Vogliono capire. Per riprodurre nei loro stadi la nostra passione. Sarà difficile che il progetto si compia. Almeno fino a che non comprenderanno che il calcio è soprattutto sentimento. E il sentimento non si può né copiare né comprare. O c’è o non c’è. La bellezza delle Olimpiadi è nella scoperta di atleti, dai più sconosciuti, che si battono in sport meno noti. Sono giunti a Parigi con tanti sacrifici all’inseguimento di un sogno. Salire sul gradino del podio è quello più ambizioso e più difficile da realizzare. Impariamo ad onorare anche un semplice piazzamento. E soprattutto non diciamo «ha perso l’oro» ma «ha vinto un argento» o un bronzo. Mettiamoci il sentimento quando li tifiamo, come fanno loro gareggiando.