Dei seni, recisi dal corpo di una donna, che affiorano dal mare, una mano che stringe un’inferriata senza più un braccio cui legarsi e poi, ancora, due orecchie rinvenute accanto ad un monumento ai caduti, due stinchi vicino ad una basilica… perfino un paio di natiche che corrono liberamente per i vicoli del centro della città facendosi beffa di quanti si mettano sulle loro tracce.

COME IN UN TRAGICO puzzle sanguinolento, qualcuno sta letteralmente facendo ritrovare «i pezzi» di un corpo femminile, uno alla volta: è probabile che per capire l’identità della vittima dovranno essere riuniti. Quanto al «movente», gli scarni messaggi che accompagnano ogni rinvenimento non lasciano intravedere alcun possibile scenario, solo una firma, anch’essa, già di per sé minacciosa: «Noi siamo la rovina». Intorno, l’allarme sociale si va definendo, diffuso dai giornali, interpretato da ministri e prelati, su su fino al Presidente della Repubblica e al Papa.

Al centro, costretto suo malgrado ad occuparsi dell’indagine, un bizzarro commissario di polizia, voce narrante della storia e portavoce – anche in questo caso suo malgrado? – dell’autore. Se l’intrigo che deve affrontare è complesso e misterioso, anche lui non fa nulla per risultare facile all’approccio, diviso com’è tra i sensi di colpa verso la sorella costretta in sedia a rotelle che non vuole vedere, una sorta di disprezzo di sé che si specchia nello sguardo che riserva all’umanità tutta e un pensare poetico che lo rende ineffabile quanto, forse, l’assassino cui ci si aspetta che intenda dare la caccia. «Non ho pistola dietro, l’ho lasciata nella tempia del passato. Ho svuotato il caricatore sui ricordi e ho perso le pallottole associate», medita lo sbirro pensando se inseguire o meno il deretano in fuga.

Rendendo omaggio fin dal titolo ai «fattacci» della cronaca nera raccontati oltre vent’anni fa da Vincenzo Cerami in un suo celebre libro che indagava l’esistenza di sinistre porte girevoli tra le vittime e i carnefici protagonisti di alcuni drammatici fatti di sangue, Antonio Rezza propone nel suo Il fattaccio (La nave di Teseo, pp. 238, euro 19) una messa in scena, sospesa tra ironia e inquietudine, che fa a pezzi il romanzo poliziesco, smembra trama e linguaggio per poi ricomporli in un inedito e compiaciuto «frankenstein letterario» che pone ancora una volta al centro i corpi, come nella traiettoria teatrale costruita dall’attore, regista e scrittore romano nel lungo sodalizio con Flavia Mastrella.

Così, dopo aver sufficientemente irretito il lettore con una vicenda che percuote il canone del «giallo», senza per altro negarne ogni presupposto narrativo, è Rezza stesso a spezzare il ritmo, all’incirca a metà del libro, incaricandosi, per altro di darne conto: «Io lettore la trama te la scippo da sotto il culo, ti tolgo la matassa e il filo del discorso che ti impicca, ti privo delle indagini sui pezzi appiccicati alle ringhiere».

A QUEL PUNTO, l’intreccio su cui far luce si sdoppia, a tratti si frantuma, intrecciando la ricerca dell’assassino, le turbe del commissario – attratto sessualmente in modo irresistibile da anziani di ogni genere e specie -, alla continua rincorsa tra autore e lettori. Una sfida nella sfida, come del resto ammette lo stesso Rezza: «Mi trovo in una situazione paradossale, sono in competizione con chi legge, e non so se lasciarlo dietro o riportarlo alla mia velocità». Seguono schermaglie tra chi scrive e chi legge, invitato, quest’ultimo, di volta in volta a fare un passo indietro, a tornare ad una determinata pagina o riga…

Quando ci si torna ad immergere nel crimine originario, non mancheranno i classici colpi di scena che potrebbero ricondurre il commissario-protagonista ad interrogarsi su quanto dell’accaduto non sia da addebitare proprio alla sua indole, alla sua compiaciuta distanza dal mondo. Qualche pagina prima, alcune frasi in forma di commiato ci avevano forse messo sull’avviso: «Un momento mio, non vi insospettite, nessuna trappola, nessun rimbrotto, un attimo per me, lontano da occhi che leggono. Un pensiero perduto che mi costringe a fare i conti con la mente assassina che trattiene le immagini e le sparpaglia inattese mentre fuori rumina».