A meno di clamorosi colpi di scena, il risultato delle presidenziali di oggi in Repubblica Dominicana sembra già scritto: secondo tutti i sondaggi, il presidente in carica Luis Abinader del Partito rivoluzionario moderno (Prm), accreditato del 61% delle intenzioni di voto, vincerà già al primo turno. Lontani nelle preferenze appaiono infatti sia il tre volte presidente Leonel Fernández della Forza del popolo (con il 20%) sia l’avvocato Abel Martínez del Partito di liberazione dominicana (con il 10%).

I suoi alti consensi Abinader li deve soprattutto a una politica, quella della lotta all’immigrazione, sempre e ovunque assai popolare ma tanto più nel paese caraibico, a cui è toccato in sorte di dividere l’isola di Hispaniola con Haiti, il paese più povero e turbolento del continente, ma potendo contare su condizioni economiche più vantaggiose: se il Pil pro capite dominicano è di circa 10.000 dollari, grazie soprattutto agli investimenti legati al turismo, quello haitiano è di poco più di 1.700.

PER PROTEGGERE la popolazione dominicana (e le spiagge, i resort e i campi da golf) dai flussi migratori provenienti dal paese vicino, come pure dal rischio di uno sconfinamento delle bande criminali, Abinader non solo ha aumentato le deportazioni forzate – 225mila le persone espulse verso Haiti nel 2023 – ma ha anche avviato, già nel febbraio del 2022, la costruzione di un muro fortificato lungo i 392 chilometri di confine, presentato come «l’opera che cambierà per sempre la Repubblica dominicana». Un’opera che però non sembra arrestare il traffico di droga e di armi e neppure impedire del tutto l’ingresso degli haitiani, che riescono comunque ad attraversare la frontiera pagando le guardie.
In campagna elettorale, tuttavia, Abinader ha promesso di terminare al più presto i lavori, con grande soddisfazione degli abitanti: secondo un recente sondaggio Greenberg-Diario Libre, il 62% della popolazione considera l’immigrazione un problema e addirittura il 79% approva la decisione di chiudere la frontiera del paese, dove già vive circa un milione di haitiani, sfruttati, pesantemente discriminati e facilmente ricattabili con la minaccia di espulsione.

ALL’INVITO delle Nazioni unite a sospendere le deportazioni di fronte alla catastrofe in corso nel paese vicino, Abinader ha risposto in maniera chiarissima: «Non lo faremo né possiamo farlo. Credo che sia l’Onu a dover agire. È da più di tre anni che diciamo che Haiti sta sprofondando nel caos. Ora non si può chiedere alla Repubblica Dominicana di risolvere il problema». Né il presidente ha voluto autorizzare la creazione di campi di rifugiati, a fronte dei 350mila sfollati interni degli ultimi mesi: «Haiti ha due isole, Gonâve e Tortuga, che può utilizzare a tale scopo». È con grande favore che invece guarda all’imminente dispiegamento ad Haiti della forza di sicurezza multinazionale guidata dal Kenya: una missione autorizzata dal Consiglio di sicurezza Onu già nell’ottobre del 2023, voluta a tutti i costi dagli Stati Uniti e considerata da Abinader «un successo della diplomazia dominicana».

NON È PERÒ solo su questo punto che il governo di Abinader si è mostrato in linea con gli interessi nordamericani: il suo asservimento agli Stati Uniti – dimostrato, tra molto altro, dalla partecipazione del Comando Sud dell’esercito Usa alle operazioni anti-droga della polizia nazionale – è pari solo alla docilità nei confronti delle grandi imprese. Tre elementi – guerra ai migranti, politica estera filo-statunitense e modello neoliberista – condivisi anche dagli altri due candidati, al di là dell’insistenza di Fernández sulla riattivazione della crescita economica e della denuncia di Martínez sulle «centinaia di migliaia di dominicani che non sanno cosa mangeranno domani».
Alle organizzazioni di sinistra presenti nel paese non resta altra scelta che disertare le urne, puntando al contrario a potenziare le lotte extra-istituzionali. È questa la posizione del Movimiento Caamañista, deciso a boicottare il processo elettorale per non legittimare «un sistema istituzionale fraudolento».