Non a Roma. La villa prediletta di Caligola sorgeva sulla sponda occidentale del lago di Nemi, 30 km a sud del Palatino.
Salito al potere nel 37 d. C., il terzo imperatore andava poco d’accordo con l’aristocrazia. Anche se mai arrivò a nominare senatore il proprio cavallo, di certo lontano dalle rigidità istituzionali richieste nella capitale si dava arie da monarca ellenistico, senza sottostare a limite alcuno.
Per esempio, dovendo pur spostarsi nel suo buen retiro lacustre, si fece costruire due sontuose navi, sulle quali dopo il tramonto dava feste luculliane, illuminando le acque con fiaccole che sembravano incendiare l’oscurità. È lo scenario che lasciano immaginare, agli inizi del III d. C., le pagine dello storico Cassio Dione.

GLI DEI CAPITOLINI, tolleranti verso usi e costumi privati, punivano tuttavia inesorabilmente chi peccava di superbia nei confronti delle istituzioni, fosse anche un principe. Così, nel 41, Caligola finì assassinato dalle guardie pretoriane e condannato alla damnatio memoriae: tutte le tracce della sua vita terrena furono distrutte e le maestose imbarcazioni, affondate, divennero leggenda.

Nel corso del Medioevo la alimentarono i pescatori locali, che spesso trovavano nelle reti preziosi reperti. Dalla curiosità ricamata dai loro racconti ha origine la più lunga e sfortunata epopea dell’archeologia italiana, la cui vicenda riassume l’evoluzione delle tecniche di immersione subacquea fino all’invenzione del moderno respiratore, l’Aqua-lung, per merito di Jacques-Yves Cousteau. Non è quindi una forzatura ritenere che l’oceanografia sia diventata adulta in un piccolo bacino vulcanico nel cuore del Mediterraneo.

Pioniere fu Leon Battista Alberti, il quale nel 1446 non poté fare altro che avvalersi della collaborazione dei marangoni: nuotatori genovesi abili nell’apnea. Da una zattera l’umanista cercò di arpionare l’unica nave di cui allora si aveva conoscenza. Provocando notevoli danni, riuscì per lo meno a recuperare alcune tubature in piombo.

Ricorse invece alla tecnologia l’ingegnere Francesco De Marchi, che nel 1535 si immerse servendosi di una macchina progettata da Guglielmo di Lorena, secondo un principio citato già da Aristotele.

IL SUBACQUEO, calatosi dentro una campana di legno dotata di una finestra di vetro e di aperture per le braccia, poté camminare sul fondale e osservare da vicino la nave, mentre l’aria entrava e usciva attraverso due diversi tubi. Tuttavia – lo sappiamo dalle sue memorie – lo sforzo gli provocò un’emorragia dal naso e dalla bocca tanto intensa che, riemerso, si accorse di avere il giubbone bianco completamente tinto di rosso.
Evidentemente l’ingegnere aveva accusato un principio di embolia, causato dall’aver respirato aria alla pressione della superficie mentre il suo corpo si trovava dieci metri più in basso.

Differente il procedimento usato tra il 1663 e il 1665 dallo svedese Albreckt von Treileben: anche egli usò una campana, ma senza tubi, per riportare a galla oltre cinquanta preziosi cannoni del vascello reale Vasa, affondato nel 1628 nel porto di Stoccolma. Il relitto si trovava a ben trenta metri di profondità e von Treileben sarebbe morto se avesse seguito l’esempio di De Marchi.

POSSIAMO CAPIRE il principio di funzionamento del suo marchingegno grazie all’esperienza domestica: immergendo nell’acqua un bicchiere capovolto, si assiste alla formazione di una bolla d’aria nella parte superiore del suo volume interno. Fu una simile riserva d’ossigeno a permettere allo svedese di resistere diverse volte e per mezz’ora ciascuna sul fondo del mare, dove ebbe il tempo di portare a termine la sua missione.

Il problema di questo metodo appare evidente. Dopo un periodo più o meno lungo di immersione, determinato dalla sua grandezza e della quota di lavoro, la campana doveva essere estratta per consentire il ricambio dell’aria.

Finalmente, nel 1690, l’astronomo inglese Edmund Halley, noto per la scoperta della natura ciclica della cometa che porta il suo nome, inventò un nuovo sistema in grado di rifornire la campana. Attraverso una catena di barili pieni di ossigeno, precedentemente immersi, si immetteva in essa aria fresca alla stessa pressione dell’acqua circostante. Questo per scongiurare il rischio di embolia.

A Nemi, nel settembre 1827, il cavaliere Annesio Fusconi ricorse proprio alla campana di Halley, predisponendone una abbastanza grande da contenere otto marangoni.

Eliseo Borghi, nel 1895, si avvalse invece di un palombaro con un vero scafandro: l’epoca pionieristica delle immersioni era ormai terminata, mentre incominciava quella dei saccheggi. L’antiquario ripescò infatti diversi bronzi, in parte ceduti al Museo Nazionale Romano e in parte venduti all’Ermitage di San Pietroburgo e al Museo archeologico di Berlino. Un mosaico strappato a una nave è stato addirittura sequestrato nel 2017 a New York, dove fungeva da tavolino in un salotto di Park Avenue.

In occasione della spedizione di Borghi, che si accorse della presenza di un secondo scafo a duecento metri dalla riva, gli studiosi si resero almeno conto di quanto fosse inutile e dannoso continuare a staccare pezzi di nave, limitandosi agli oggetti di valore e lasciando i legni a marcire sulla spiaggia.

IL MINISTRO Guido Baccelli chiese pertanto al dicastero della Marina la consulenza di esperti per realizzare un progetto di recupero scientifico. Per la prima volta, nel 1896, le autorità statali posizionarono e rilevarono le due imbarcazioni, producendo un’accurata relazione in cui veniva proposto il parziale prosciugamento del lago per condurle in secca.

A causa degli elevati costi previsti bisognò aspettare il 1926 per l’istituzione di un’apposita commissione, la cui presidenza fu affidata a Corrado Ricci.

La decisione più difficile riguardò le modalità da seguire per abbassare il livello dell’acqua: se realizzare un cunicolo tra il lago di Nemi e quello di Albano, situato a poca distanza e a un livello minore, o ripristinare l’antico emissario sotterraneo che portava l’acqua del bacino nemorense fino al Fosso dell’Incastro e, tramite questo, al mare. La galleria, lunga 1653 metri, era stata scavata nella dura lava agli inizi del V secolo a. C. per far defluire le acque del lago in modo che, in caso di piena, non inondassero il santuario di Diana.

Scelta la seconda ipotesi e restaurato l’emissario, il 20 ottobre 1928 Mussolini stesso mise in funzione l’impianto idrovoro. Il primo scavo emerse totalmente il 3 settembre 1929, il secondo nell’ottobre del 1932.

LA FACCIATA del museo, realizzato da Vittorio Ballio Morpurgo, fu chiusa nel gennaio del 1936 dopo la collocazione al suo interno, una per ognuna delle due navate, delle due navi. Un’intelaiatura metallica le teneva sospese da terra, in modo tale che fosse possibile apprezzarne anche la chiglia, mentre una visuale dall’alto era permessa dai ballatoi, raggiungibili da scale a chiocciola che richiamavano alla memoria quelle forse esistenti sulle navi.

La notte del 31 maggio 1944, quattro anni dopo la sua inaugurazione e quattro giorni prima dell’entrata delle truppe americane a Roma, fiamme appiccate dai nazisti devastarono il museo di Nemi, suggellando con due millenni di ritardo l’eterna damnatio dei due capolavori. Solo un’ancora di ferro sopravvisse.
Ma le chimere covate in seno agli abissi sono testarde. Ogni tanto qualche irriducibile prova ancora a inseguire sul fondale del lago le sirene di una terza nave. Ultimi, nel 2016, i sommozzatori dei carabinieri guidati da Santi Scolaro.

 

Al museo, i reperti e anche i modelli

Più che natanti veri e propri le navi di Caligola erano due palazzi galleggianti con ambienti riscaldati e dotati di acqua corrente, pavimenti ricoperti di mosaici e laterizi, statue e padiglioni con colonne in marmo, tetti rivestiti da tegole di bronzo. Non ogni loro ricordo è andato perduto nel rogo. Nell’agosto 1943, il Soprintendente aveva fatto trasportare nel Museo Nazionale Romano i reperti di maggior valore, tra cui i bronzi decorativi, i condotti plumbei per l’acqua corrente con l’iscrizione di Caligola e parte dei pavimenti a intarsio marmoreo. Quando il museo di Nemi poté riaprire, nel 1953, i curatori dovettero accontentarsi di due modelli delle navi, in scala 1:5, realizzati dai cantieri di Castellammare di Stabia, oltre all’ancora risparmiata dall’incendio e ai pezzi salvati nel 1943. L’attuale allestimento riserva la navata sinistra ai due modelli e quella destra alla storia del lago di Nemi, con particolare rilievo alla villa di Caligola e al santuario di Diana.