Se era scontato che la bocciatura della nuova Costituzione al referendum del 4 settembre scorso avrebbe spostato molto più a destra il baricentro della politica cilena, l’Accordo per il Cile, come è stato chiamato il nuovo processo costituente, supera anche le peggiori aspettative.

Quanto sia scarsa la legittimità democratica del nuovo processo lo indica già solo il peso attribuito alla commissione di 24 «esperti» – designati dal Congresso – a cui spetterà il compito, a partire da gennaio, di elaborare una bozza della nuova Costituzione.

Tanto più che, in assenza di una definizione dei requisiti richiesti per essere considerati «esperti», tutte le designazioni saranno totalmente discrezionali.

LA BOZZA REDATTA dalla commissione sarà quindi «discussa e approvata», in un arco di tempo di 5 mesi (dal 21 maggio al 21 ottobre del 2023), da un Consiglio costituzionale composto da 50 persone (25 uomini e 25 donne, più i seggi assegnati agli indigeni) elette ad aprile con le controverse regole elettorali del Senato (da sempre la più conservatrice delle due Camere) e sulla base di liste composte esclusivamente da partiti o alleanze di partiti, di modo che gli indipendenti potranno solo sperare di entrare a farne parte.

Ma non è tutto: gli articoli che non saranno approvati dai 3/5 dei consiglieri, né respinti dai 2/3, saranno sottoposti a una Commissione mista costituita da sei consiglieri e sei esperti, che decideranno il destino delle norme in conflitto.

Infine, un Comitato tecnico di ammissibilità composto da altri 14 esperti designati dal Senato sarà chiamato, con una maggioranza di 4/7, a individuare, articolo per articolo, eventuali contraddizioni con le basi istituzionali dell’Accordo per il Cile: 12 paletti concordati dai partiti che mantengono l’essenziale della Costituzione di Pinochet, riguardo sia al modello economico che al sistema politico, con l’aggiunta di formule di rito come quella dello «Stato democratico e sociale di diritto», svuotata di ogni contenuto in quanto vincolata al principio della «responsabilità fiscale».

Mentre è scomparso qualsiasi riferimento alla plurinazionalità: «La Costituzione – si legge nel testo dell’accordo – riconosce i popoli indigeni come parte della nazione cilena, che è una e indivisibile. Lo Stato rispetterà e promuoverà i loro diritti e le loro culture».

A CONCLUDERE il processo sarà poi un plebiscito di ratifica con voto obbligatorio fissato per il 26 novembre.

«Ancora una volta, malgrado le difficoltà, abbiamo deciso di risolvere i problemi della democrazia con più democrazia e non con meno», è stato il singolare commento di Gabriel Boric di fronte alla firma dell’accordo, il 12 dicembre, dopo quasi 100 giorni di negoziati, da parte di 14 partiti, dall’Udi fino al Frente Amplio e al Partido Comunista, con l’eccezione del Partido

Republicano di estrema destra. Più tre movimenti sorti a partire dalla campagna per il plebiscito del 4 settembre, a cominciare dagli Amarillos por Chile, i quali, dopo il ruolo giocato a favore del Rechazo, si vedono legittimati come attori politici pur non avendo alcuna rappresentanza parlamentare.

Un commento, quello di Boric – ormai il fantasma del giovane presidente che aveva affrettatamente risvegliato i sogni della sinistra internazionale -, in linea con le parole pronunciate alla fine di novembre in occasione dell’inaugurazione della statua di Patricio Aylwin, il primo presidente della sempre incompiuta transizione alla democrazia, quando ne aveva elogiato la politica di cambiamenti «nella misura del possibile».

HA FINITO per abbassare il capo pure l’esponente del Partido Comunista e sindaco di Recoleta Daniel Jadue, malgrado avesse, appena qualche giorno prima, invitato il partito a non firmare «un accordo che tradisce il mandato del popolo che ci ha eletto», ricordando come «lo scenario della realpolitik o della politica del possibile porti solo e sempre a favorire chi non vuole che ci siano cambiamenti».

Dopo la firma, tuttavia, ha mandato giù il rospo, annunciando la sua resa su Twitter: «Nell’accordo persistono i fantasmi della democrazia tutelata. Sono mancati coraggio e convinzione, ma ci uniremo al processo per disputare spazio a quanti si credono i padroni del Cile».

Tra i movimenti popolari, naturalmente, la condanna è senza appello: quello che esprime l’Accordo per il Cile, denunciano, è la nostalgia del regime di democrazia protetta seguito alla fine della dittatura, insieme al timore che un mancato accordo potesse favorire l’instabilità politica e scatenare nuove proteste.

È, dicono, la negazione della sovranità popolare, una pietra tombale sulle rivendicazioni e le speranze di cambiamento suscitate dalla ribellione dell’ottobre 2019. Fino, è chiaro, alla prossima esplosione sociale.