La mostra Radiance, They Dream in Time, allestita a Palazzo Palumbo Fossati poco distante da Piazza San Marco, è curata da Shaheen Merali e presenta il lavoro di Acaye Kerunen e Collin Sekajugo. Inizialmente pensata come un evento collaterale sotto l’egida della Biennale di Venezia che riunisse artisti ugandesi nel Paese e nella diaspora, è stata poi a causa Covid riformulata come Padiglione nazionale commissariato da Juliana Akoryo Naumo ministra di Genere, lavoro e sviluppo sociale. Non poteva avere rappresentanza governativa più adatta. I lavori di entrambi gli artisti rimandano infatti a genere, lavoro e patrimonio culturale. Al suo esordio a Venezia, l’Uganda ha ricevuto una meritata menzione d’onore. Entrando nel padiglione si percepisce un immediato senso di sicurezza. Consapevolezza del proprio lavoro, della propria estetica e cultura, delle proprie origini. Kerunen e Sekajugo stabiliscono un dialogo armonioso tra le stanze attraverso l’uso dei materiali e i richiami dei colori. Lo spazio è pervaso dal profumo delle fibre. È palpabile l’intimità che lega non solo i lavori, ma la curatela di Merali con gli artisti. Anche la produzione è impeccabile, dalla scelta della location alla cura dell’edizione del catalogo, dalla borsa al poster che risplende per le calle di Venezia.

NEL 2021 KERUNEN ha realizzato presso AfriArt Gallery Aag di Kampala la mostra Iwang Sawa dando avvio a una collaborazione con una comunità locale di donne tessitrici che è giunta fino a Venezia. Ad oggetti di uso quotidiano come stuoie, borse, ceste intrecciate in fibre naturali come rafia, banana, foglie di palma è stato dato un nuovo significato, divenendo pezzi non più funzionali all’uso a cui apparentemente sono destinati, ma installazioni d’arte. I diversi materiali racchiudono le storie legate al territorio dell’Uganda e alla sua molteplicità culturale. La loro lavorazione rimanda al tempo. I lunghi tempi di coltivazione, a cui seguono quelli di lavorazione per trasformare le materie prime in prodotti artigianali. Rimanda a conoscenze ancestrali. L’abilità nella tessitura e nell’intreccio che le artigiane ugandesi si tramandano da generazioni.

IL SUO LAVORO diviene quindi un atto di femminismo nero che celebra il patrimonio culturale del suo paese e ne richiede la preservazione. Il lavoro è individuale ma frutto di un impegno collettivo. Se la fabbricazione è opera delle artigiane, è l’artista che interviene nella sua decostruzione e re-significazione, interrogando la forzata dicotomia tra arte e artigianato e design.
Invita anche a riflettere sull’arte turistica spazzatura che, nella modernità in continua espansione delle forme occidentalizzate, cancella il significato di un artigianato che attinge a regioni, spazi tribali e quartieri.

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Collin Sekajugo, a sua volta, si riappropria, nei ritratti esposti a Venezia, del diritto di essere visti. Lo fa sia raffigurando operatori di call center del sud del mondo, sia rubando la scena di un mondo virtuale sovraccaricato di immagini bianche. La prima serie indaga quella che il testo curatoriale definisce come digital plantation, le forme razzializzate di controllo della soggettività imposte dall’era della informazione e dal capitalismo cognitivo. Una provocazione, da parte di Sekajugo, anche in risposta al crescente interesse esplorativo per la cultura e l’arte contemporanea africana. Le seconde immagini restituiscono, invece, a corpi neri uno spazio sovraccaricato da un immaginario bianco, nei ritratti in rete di personaggi noti, di cui non si richiede di riconoscerne l’identità, o rifacendosi a antiche fotografie britanniche e tedesche dell’Africa orientale pre-indipendenza. Entrambe le serie mettono in discussione la «sostenibilità operativa dell’ordine e delle norme occidentalizzate», sia riguardo l’esplorazione del lavoro che della soggettività di chi lo produce. Infine, le opere a collage e sovrapposizione, utilizzando materiali riciclati come corteccia, borse in polipropilene, tessuti e carta straccia, esprimono una critica all’immagine tradizionale degli stili pittorici della storia dell’arte occidentale.

GLI ARTISTI ASSUMONO il ruolo di attivisti culturali impegnati in un progetto pedagogico che posiziona la propria pratica ed estetica non come subalterna alla concezione occidentale delle arti. Secondo Gloria Kikonco la menzione speciale data all’Uganda per la sua prima partecipazione nazionale alla Biennale di Venezia rappresenta un importante traguardo per la comunità artistica ugandese che da anni resiste al preconcetto, promossa dallo stesso presidente, che il campo delle arti sia inutile allo sviluppo del Paese. Se la stessa idea dell’improduttività del settore artistico ugandese sembra essere ripresa da curatori internazionali, questa viene smentita con decisione da un padiglione che entra a Venezia senza chiedere permesso.